Signori, la Depressione è finita

La crisi è finita, la crisi ha raggiunto il picco negativo, il peggio è passato, tutto volge per il meglio: questo è il messaggio che i media stanno presentando sempre più insistentemente negli ultimi giorni. Se la crisi fosse, come sostiene Berlusconi, soltanto psicologiche, allora queste dichiarazioni all’insegna dell’ottimismo potrebbero anche avere un effetto positivo ma sappiamo benissimo che così non è.

E’ inquietante poi leggere oggi dichiarazioni che assomigliano molto a quelle di un’ottantina di anni fa.

Berlusconi – 22 Luglio

"La crisi si è sfogata per il sistema finanziario e chi doveva fallire è fallito. Aspettiamo la ripresa, che ci sarà di sicuro". D'altronde la tesi del Cavaliere è nota. Per Berlusconi non si deve "aver paura della paura", la crisi è alle spalle e la componente psicologica "negativa" è il vero freno alla ripresa.

Herbert Hoover – 1 Maggio, 1930

Sebbene il crash dei mercati sia accaduto soltanto sei mesi fa, sono convinto che abbiamo passato il momento peggiore e continuando il nostro sforzo comune avremo una rapida ripresa. Non ci sono stati significativi fallimenti dei banche ed industrie. Anche questo pericolo è alle nostre spalle.

Obama – 29 Luglio

"La notizia è stupefacente, ma siamo all'inizio della fine della recessione". Così il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, commentando lo stato di salute dell'economia americana davanti a una platea di comuni cittadini a Raleigh, in North Carolina. "Non siamo più in caduta libera, il sistema finanziario non è sull'orlo del collasso. Perdiamo il 50% in meno di posti di lavoro rispetto all'anno scorso. I prezzi delle case sono in aumento dopo 3 anni". Certo, ammette, questo non consolerà "le persone che hanno perso il lavoro, ma siamo nella direzione giusta. I tempi duri però non sono ancora finiti"

Herbert Hoover – Giugno, 1930

“Signori, siete arrivati 60 giorni in ritardo. La Depressione è finita

Harward Economic Society, 30 Agosto, 1930

La Depressione ha quasi esaurito il suo impeto

Harward Economic Society, 15 Novembre, 1930

Siamo alla fine della fase calante della Depressione


L'angolo Nostradamus: L'Istituto di Studi ed Analisi Economica

Durante la discussione del DPEF alla Camera ecco un’altra previsione sull’economia, questa volta da parte dell’Istituto di Studi ed Analisi Economica (ISAE)

Il Pil, nel 2009, segnerà una flessione del 5,3% secondo i dati aggiustati per il calendario (-5,2% in termini grezzi). L'Istituto di studi e analisi economica (Isae) nel rapporto "Le previsioni per l'economia italiana" conferma così le stime illustrate in Parlamento nel corso dell'esame del Dpef.
Secondo l'Isae «la fase peggiore del ciclo economico dovrebbe essere stata superata anche in Italia» ma «l'avvio della ripresa avverrà tuttavia con molta gradualità, evidenziandosi nelle cifre medie annue solo a partire dal 2010», quando il Pil segnerà un +0,2%, secondo i dati corretti per il numero dei giorni lavorativi (+0,3% in termini grezzi). Secondo l'Isae, il secondo trimestre del 2009 sarà ancora negativo, ma «un segno positivo nell'evoluzione del prodotto lordo dovrebbe tornare a evidenziarsi a partire dal terzo trimestre».

Quanto al 2010, sulla ripresa dovrebbe influire «il progressivo rafforzamento del commercio mondiale». I provvedimenti decisi dal Governo nella manovra estiva, sempre secondo l'Istituto, «contribuirebbero a dare sostegno alla domanda interna».

Alleluia! La crisi è ai minimi e dal prossimo trimestre si riparte! Prima di stappare lo champagne è forse meglio controllare cosa prevedevano qualche mese fa…

9 Ottobre 2008

Crescita zero per l'economia italiana nel 2008 e l'anno prossimo un modesto +0,2%. Queste le nuove previsioni sull'economia formulate dall'Isae.[..] Questi elementi potrebbero condizionare l'evoluzione europea anche nei primi mesi del 2009; solo nel secondo semestre del prossimo anno si avrebbe un recupero, per la stabilizzazione delle tensioni finanziarie e il rientro dell'inflazione. Il PIL della zona euro aumenterebbe dello 0,5% nella media del prossimo anno, dopo una variazione dell'1,1% stimata per il 2008.[..] Nel mercato del lavoro, le tendenze si prospettano ancora relativamente positive tenuto conto della cattiva congiuntura: nel 2008 l'occupazione aumenterebbe dello 0,9%; nel 2009, la creazione di posti di lavoro rallenterebbe allo 0,3%

Che dite? Rimettiamo lo champagne al fresco?


Superenalotto: la lotteria dei prolet

Una su 622 milioni.

Questa è la probabilità di indovinare la sequenza di sei numeri che ci consentirebbe di mettere le mani sui 107 milioni di euro che costituiscono il jackpot del superenalotto. Basta un euro per giocare e con un po’ di fortuna si diventa ricchi…..ma ne vale la pena?

La teoria matematica dice di no. Il Superenalotto è un gioco d’azzardo ed in quanto tale prevede che il banco parta sempre avvantaggiato sui giocatori. Quando andiamo al casinò e giochiamo alla roulette questo vantaggio è dato dalla presenza dei numeri “0” e “00” i quali fanno sì che il nostro rendimento atteso sia minore di zero

Immaginiamo di giocare 10 euro sul rosso in una roulette che presenta sia lo “0” che il doppio “0” e che quindi ha 38 numeri.

In 18 casi su 38 vinciamo il doppio della nostra puntata, ovvero ne vinciamo altri 10 mentre in 20 casi su 38 perdiamo i 10 euro giocati.

In pratica ogni volta che giochiamo 10 euro alla roulette stiamo perdendo, in media, 53 centesimi e quindi il nostro rendimento atteso è del 5,3%... in negativo.

Questo per quanto riguarda un gioco d’azzardo gestito da un casinò, ovvero da un privato. Ma per quanto riguarda il Superenalotto che è in pratica gestito dallo Stato?

Le cose vanno anche peggio..

Ora che il jackpot è salito a 107 milioni di euro, dopo più di sei mesi di giocate, per ogni 50 centesimi di euro giocat,i la nostra vincita attesa è di circa 17 centesimi. Il rendimento netto atteso è quindi meno 34%.

Quando sono iniziate le estrazioni, però, il jackpot era di soli 10,9 milioni di euro e quindi la vincita attesa era circa un decimo di quella attuale!

Rendimento atteso di chi ha giocato a febbraio? Un secco meno 96%

Vincere al Superenalotto ti cambia la vita!

Il ragionamento tipico è di questo tipo: so che la probabilità infima di vincita rende la mia giocata un investimento in perdita ma il premio è così alto che un’eventuale vincita mi cambierebbe la vita e per pochi euro voglio provarci.

Ovviamente 107 milioni di euro cambiano la vita di una persona ed il ragionamento in sé non fa una piega, se non fosse che i “pochi euro,” giocati tre volte a settimana, diventano alla fine una significativa voce di spesa nel bilancio familiare. La cosa più preoccupante, però, è che questo modo di pensare denota una sfiducia oramai completa nella possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita attraverso il lavoro ed il risparmio.

Questo ricorda molto la condizione dei prolet di 1984, il capolavoro di Orwell, la cui unica speranza era, guardacaso, una lotteria.

Parlavano, evidentemente, della Lotteria. Winston, come fu andato avanti d'una trentina di passi, diede una guardata indietro. Stavano ancora litigando, con certe facce accese e appassionate. La Lotteria, con i suoi vistosi premi settimanali, era l'unico avvenimento pubblico a cui i prolet s'interessassero. Era più che probabile che la Lotteria fosse la ragione principale, se non la sola, per cui milioni di prolet avevano ancora un qualche attaccamento alla vita. Era la loro maggiore fonte di piacere, il loro margine di follia, teneva il luogo di stupefacente, di stimolante intellettuale. Quando si trattava della Lotteria, anche la gente che sapeva appena leggere e scrivere diventava capace dei calcoli più difficili e di sorprendenti sforzi di memoria. C'era tutta una categoria di persone che si guadagnava da vivere soltanto con la vendita dei più complicati sistemi di vincita, di pronostici e portafortuna. Winston non aveva le mani in pasta, per quel che riguardava la Lotteria, che era affare del Ministero dell'Abbondanza, ma sapeva comunque (come tutti sapevano, nel Partito) che i premi erano in gran parte del tutto immaginari. Solo piccole somme venivano effettivamente pagate, ma i vincitori dei premi maggiori (che erano, sulla carta, addirittura favolosi) erano semplicemente persone inventate, che non esistevano affatto. Dal momento che non era possibile alcuna effettiva comunicazione tra un luogo e l'altro dell’Oceania, questo trucco era di facilissima attuazione.

Le differenze, oggi, non sono poi così tante. Certamente i premi non sono fittizi e vengono erogati normalmente ma se pensiamo che dall’ultima estrazione vincente ad oggi, ovvero in sei mesi, sono stati giocati 1,4 miliardi di euro nel Superenalotto possiamo ben vedere che non c’è poi così tanta differenza tra il Ministero dell’Abbondanza di Orwell ed il nostro Erario.


Inflazione? Calcolatela da solo!

Una decina di giorni fa l’Istat ha comunicato i dati per “l’inflazione” riferiti al mese di giugno.

L'inflazione a giugno scende a +0,5%, da +0,9% di maggio. Lo comunica l'Istat, confermando la stima preliminare. Il tasso di inflazione si porta così ai minimi dal settembre 1968, quando si attestò a +0,4%. I prezzi, su base mensile, sono aumentati dello 0,1.

Chi conosce la scuola austriaca di economia sa che l’inflazione è ben altra cosa mentre il cambiamento percentuale di un indice dei prezzi non può far altro che misurare solo una delle conseguenze dell’inflazione.

Un’altra perplessità riguarda poi il paniere di beni con cui vengono compilate le statistiche dell’Istat e la sua rilevanza nella nostra vita di tutti i giorni. L’Istituto di statistica, infatti, assegna per ogni categoria di prodotto (e sono quasi duecento) un peso percentuale e poi va a sommare tutto per comporre un numero, l’indice dei prezzi, le cui variazioni vengono comunicate mensilmente.

Non è affatto detto (anzi non lo è mai) che i pesi assegnati dall’Istat riflettano le nostre abitudini di consumo per cui è praticamente certo che il costo della vita, inteso come costo della nostra vita, sia molto differente da quello stabilito dall’Istat.

Avete mai desiderato poter compilare un vostro personalissimo paniere e vedere le ripercussioni sui dati dell’Istat? Da oggi potere farlo.

Questo semplice programma vi permette di compilare il vostro paniere di beni e servizi su cui basare la stima dell’inflazione, pur utilizzando le variazioni di prezzo registrate dall’Istituto nazionale di statistica.

Quello che dovete fare è molto semplice:

- selezionate un bene dal menù a tendina (es. pasta)

- assegnate un peso a quel bene (es. quanto avete speso in pasta nell’ultimo mese)

- clickate su aggiungi

Quando avete finito fate click sul bottone calcola ed in una finestra apparirà il dato dell’inflazione secondo il vostro paniere rapportato con il dato fornito dall’Istat per il giugno 2009.

Scaricalo!

Buon divertimento


Ma quale paradosso!

In un recente post, Paul Krugman parla di nuovo del cosiddetto paradosso del risparmio:

“Il paradosso del risparmio funziona più o meno così. Supponiamo che una grande moltitudine di persone decida di risparmiare di più Si potrebbe pensare che questo produca necessariamente un aumento del risparmio nazionale. Ma se il calo dei consumi fa sì che l’economia cada in recessione, allora i redditi caleranno e con essi i risparmi, a parità di altre condizioni. Questo calo dei risparmi può neutralizzare in larga parte o totalmente l’aumento iniziale”

Questo paradosso è stato reso famoso da Keynes nella Teoria Generale in cui affermava che:

“Sebbene sia improbabile che l’ammontare dei suoi risparmi abbia una qualche significativa influenza sul suo reddito, le reazioni causate dal livello dei suoi consumi sui redditi degli altri fa sì che sia impossibile per tutti gli individui risparmiare una qualsiasi somma data. Ogni tentativo di risparmiare di più riducendo i consumi avrò un effetto tale sugli altri redditi che è destinato a sconfiggersi da solo.”

Cosa significa? Secondo Keynes parlare di risparmio o investimento è la stessa cosa in quanto per lui i risparmi sono sempre uguali agli investimenti.

L’interpretazione pre-keynesiana di questa equivalenza funzionava più o meno così: perché vi siano delle risorse disponibili per effettuare degli investimenti bisogna che prima queste siano state risparmiate. Un’economia senza risparmi è un’economia che non può crescere se non consumando lo stock di capitale accumulato.

Ma Keynes intende dire un’altra cosa. L’economista inglese, infatti, sostiene che siano gli investimenti a determinare il livello dei risparmi e non il contrario. In un’economia in cui non ci sono investimenti non vi saranno nemmeno risparmi e tutto ciò indipendentemente dalla volontà degli individui e viceversa un alto livello di investimenti determina un alto livello di risparmio quale che sia la volontà degli individui.

In pratica se le imprese decidono di investire come dei matti potete stare tranquilli e spendere ogni euro del vostro stipendio: la magia keynesiana farà in modo di aumentare il vostro reddito a tal punto che il conto in banca si riempirà da solo.

Come spesso accade nel mondo keynesiano viene quindi ribaltato il rapporto di causa-effetto, portando ad affermazioni che vanno contro al pensiero comune non perché quest’ultimo sia sbagliato ma perché esse sono prive di senso.

Ma Krugman dice di aver trovato nei dati una conferma dell’esistenza del paradosso del risparmio! Infatti le famiglie americane hanno sì risparmiato di più ma il risparmio aggregato è diminuito. Il premio Nobel ci mostra con trionfo un grafico che mostra l’accaduto

Sbaglio o forse c'è una spiegazione più semplice al calo del risparmio aggregato?


L'angolo di Nostradamus: Bernanke!


L'angolo Nostradamus: Il DPEF e l'Italia

In questi giorni si sta approntando il cosiddetto DPEF (Documento di programmazione economica e finanziaria). Che cos’è? E’ un documento in cui lo Stato inserisce le sue previsioni per l’andamento dell’economia nel medio termine (di solito per i tre anni che seguono) e stabilisce gli obiettivi che intende raggiungere (debito pubblico, rapporto deficit/PIl, etc.)

Il documento appena presentato prevede, per il 2009, un calo del PIL di circa 5,2 punti percentuali ma è ottimista per il 2010, ipotizzando una ripresa economica con una crescita dello 0,5%.

Come sempre, quando vengono fatte delle previsioni, può essere interessante (e divertente) vedere che cosa era stato detto in passato in modo da valutare quanto siano affidabili i “modelli economici” sui quali si basano questi dati (a meno che Tremonti e Berlusconi tirino un grosso dado percentuale per stabilirli)

DPEF 2008-2001: Governo Prodi – Ministro Padoa Schioppa (2007)

Nel 2008 il tasso di crescita del prodotto interno lordo dovrebbe risultare pari all’1,9 per cento. Nel triennio successivo la crescita media annua del PIL si attesterebbe all’1,7 per cento.

DPEF 2009-20013: Governo Berlusconi – Ministro Tremonti (2008)

In base alle attuali proiezioni, nel 2009 il tasso di crescita del prodotto interno lordo risulterebbe pari allo 0,9 per cento. [..] Nel quadriennio successivo la crescita media annua del PIL si attesterebbe leggermente al di sotto dell’1,5 per cento.

Possiamo stare tranquilli!


L'eutanasia del rentier

Visto il ritorno in auge della teoria keynesiana e dal momento che in molti magari non vedono di buon occhio le soluzioni dei cosiddetti neokeynesiani ma rimangono saldi e convinti nel sostenere le considerazioni di Keynes, può essere utile leggere alcuni passi della Teoria Generale (ma i keynesiani l’avranno mai letto il testo sacro del loro maestro?)

Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta

Pag. 314-315

La situazione, che considero come tipica, non è una in cui il capitale è così abbondante che la comunità nel suo complesso non ha più ragionevoli impieghi per esso ma una in cui gli investimenti sono fatti in condizioni che sono instabili e non possono durare perché fatti sulla base di aspettative che sono destinate ad essere disattese.

Può essere il caso, e spesso accade davvero, che le illusioni del boom facciano sì che particolari beni capitali siano prodotti in tale abbondanza che parte del prodotto sia, per ogni criterio, uno spreco di risorse, cosa che può capitare anche in assenza di un boom. Conduce, si può dire, al malinvestimento.

Ma al di sopra ed oltre a questo vi è l’essenziale caratteristica del boom ovvero che investimento che in condizioni di piena occupazione renderanno, diciamo, il 2% sono fatti con l’aspettativa che rendano il 6% e come tali conteggiati. Quando arriva la disillusione, invece, l’aspettativa viene rimpiazzata da un “errore di pessimismo” con il risultato che gli investimenti che avrebbero reso il 2% in condizioni di piena occupazione ora hanno un rendimento atteso negativo; ed il risultante collasso dei nuovi investimenti conduce ad uno stato di disoccupazione in cui gli investimenti, che avrebbero reso il 2%, hanno davvero un rendimento negativo.

Il rimedio al boom non è un più alto tasso di interesse ma uno più basso perché ciò renderebbe il boom perenne. Il rimedio al boom non è il tentativo di eliminarlo per tenerci in uno stato di semi-crisi, ma di abolire le crisi e mantenerci permanentemente in un stato di quasi boom

p.371-372

Si giustifica un tasso di interesse moderatamente alto con la necessità di produrre un sufficiente incentivo a risparmiare. Ma si è mostrato che il livello effettivo dei risparmi è necessariamente determinato dal livello degli investimenti (per Keynes risparmio = investimento sempre ed è il secondo a determinare il primo e non viceversa ndA) ed il livello di questi ultimi è promosso da un basso tasso di interesse a patto che non tentiamo di stimolarlo in questo modo oltre al livello a cui corrisponde la piena occupazione (se lo facciamo, secondo Keynes, otteniamo solo inflazione dei prezzi). Quindi è nel nostro miglior interesse ridurre il tasso di interesse in modo tale da eguagliarlo all’efficienza marginale del capitale nella situazione in cui vi è piena occupazione.

[..]

Chi possiede capitale guadagna un interesse perché il capitale è scarso, allo stesso modo di come il proprietario di terre può percepire un affitto perché la terra è scarsa. Ma mentre ci possono essere motivi reali per la scarsità della terra non sussistono reali motivi per la scarsità di capitale [secondo Keynes basta che si stampi moneta] Pertanto, in pratica [..] un aumento dell’offerta monetaria può essere attuato fino a che il capitale cessi di essere scarso[..] ciò significa l’eutanasia del rentier e di conseguenza l’eutanasia del sempre crescente potere oppressivo del capitalista di sfruttare la scarsità di capitale


Ma il governo deve fare qualcosa!

Quante volte abbiamo sentito che senza l'intervento governativo la crisi economica avrebbe prodotto la perdita di milioni di posti di lavoro?



Beh forse qui Nancy Pelosi ha un po' esagerato. Comunque queste erano le ragioni per imbarcarsi in un gigantesco piano di stimolo all'economia e questi sono i primi risultati...


Dizionario economico: il valore

"I Cartaginesi raccontano anche questo, che vi è una regione della Libia e uomini che la abitano, al di là delle colonne d’Ercole. Quando siano giunti tra questi e abbiano scaricato le mercanzie, dopo averle esposte in ordine lungo la spiaggia risalgono sulla nave e alzano una fumata. Allora gli indigeni vedendo il fumo vanno al mare e poi in sostituzione delle mercanzie depongono oro e si ritirano lontano dalle merci. E i Cartaginesi sbarcati osservano e se l’oro sembra loro degno delle mercanzie lo raccolgono e si allontanano, se invece non sembra degno, risaliti sulla nave di nuovo attendono; e quelli, fattisi avanti, depongono altro oro, finché li soddisfino. E non si fanno torto a vicenda, perché né essi toccano l’oro prima che quelli l’abbiano reso uguale al valore delle mercanzie, né quelli toccano le merci prima che gli altri abbiano preso l’oro" (Erodoto, Storie IV, 196)

Il racconto di Erodoto illustra ciò che gli antichi intendevano per scambio equo: una lenta e silenziosa trattativa in cui entrambe le parti offrivano le loro mercanzie sino a che non veniva trovato un accordo.

Ma come determinare il valore di queste mercanzie? Oppure dell'oro che veniva offerto in cambio? Esiste un criterio oggettivo per determinare dall'esterno quando uno scambio è equo?

Sin dall'antichità filosofi ed economisti hanno cercato di rispondere a queste domande formulando diverse “teorie del valore”.

Esaminiamo le tre più importanti.


Aristotele, Marx ed il valore oggettivo

Nelle sue opere Aristotele sostiene che ogni bene (una casa, una misura di grano, un letto) ha un suo valore proprio ed oggettivo e quando si effettua uno scambio equo non si fa altro che pareggiare i valori dei beni tramite delle semplici equivalenze.

“Siano A una casa, B dieci mine, C un letto. A è la metà di B, se la casa vale cinque mine, o se è uguale a cinque mine. E il letto è la decima parte, C è un decimo di B. E' chiaro pertanto quanti letti costituiscono l'equivalente di una casa, cioè cinque. [..] Infatti non fa nessuna differenza o avere cinque letti in cambio di una casa o pagarli quanto valgono cinque letti.”
(Aristotele, Etica Nicomachea, V,8)

I pilastri di questa teoria sono quindi due:

- ogni bene è dotato di un “valore” che è oggettivo e misurabile

- uno scambio equo avviene solo tra mercanzie di pari valore

Per il filosofo greco non vi sono dubbi che il valore delle merci scambiate sia uguale: afferma infatti che “non vi sarebbe scambio se non vi fosse uguaglianza, né uguaglianza se non vi fosse commensurabilità”. Tuttavia, sempre Aristotele, nota che ”è impossibile che cose tanto diverse siano commensurabili”.

Cos'è questo “valore” che rende rapportabili tra loro una casa e cinque letti? Che cos'è che li renderebbe uguali?

Aristotele non indaga oltre e parla di un generico “bisogno”. Gli economisti classici (Smith, Ricardo e soprattutto Marx) invece individueranno questo principio comune nel “lavoro”.

Il filosofo tedesco, infatti, riprende le argomentazioni di Aristotele e le approfondisce nel primo libro del Capitale in cui afferma:

”Prendiamo poi due merci: p. es. grano e ferro. Quale che sia il loro rapporto di scambio, esso è sempre rappresentabile in una equazione, nella quale una quantità data di grano è posta come eguale a una data quantità di ferro, p. es. un quarter di grano = un quintale di ferro. Che cosa ci dice questa equazione? Che in due cose differenti, in un quarter di grano come pure in un quintale di ferro, esiste un qualcosa di comune e della stessa grandezza. Dunque l'uno e l'altro sono eguali a una terza cosa, che in sé e per sé non è né l'uno né l'altro. “ (Marx, Il Capitale, Cap. I)

La “terza cosa” sarebbe quel principio che permetteva la “commensurabilità” di cui parlava Aristotele.. Questo qualcosa, il valore di scambio, deve essere indipendente dalle qualità “fisiche” delle merci, che sono ovviamente molto diverse. Secondo Marx “rimane loro soltanto una qualità, [comune a tutte le merci scambiate e cioé] quella di essere prodotti del lavoro”.

Ricapitolando, per Marx due merci vengono scambiate quando hanno pari valore e quest'ultimo è determinato dalla quantità di lavoro necessario a produrle. Nell'esempio precedente se cinque letti venivano scambiati con una casa era perché “contenevano” la stessa quantità di valore, ovvero le stesse ore di lavoro.


Critiche alla concezione di valore oggettivo

Le critiche che si possono fare a questa teoria sono molteplici e ne verranno presentati solo alcuni esempi.

Innanzitutto si estromette dal processo di scambio quello che è l'attore principale, cioè l'uomo, ed il suo giudizio di valore, che è prettamente soggettivo:

Che differenza c'è, in termini di “valore-lavoro” tra la pallina da baseball con cui Barry Bonds ha realizzato il record di fuoricampo della MLB ed una pallina da baseball qualunque? Nessuna.

Eppure, se messa all'asta, la prima potrebbe essere venduta ad un collezionista per centinaia di migliaia di dollari; meno se le accuse a Bonds di aver utilizzato steroidi venissero provate.

Eppure è solo una palla da baseball indistinguibile dalle altre!

In secondo luogo se le merci si scambiano attraverso il loro valore-lavoro non ha alcun effetto, nella determinazione dei prezzi, l'interazione tra domanda ed offerta. Eppure ogni giorno assistiamo al contrario! Marx tenta di giustificare la variazione di prezzo in questo modo:

”La grandezza di valore di una merce rimarrebbe quindi costante se il tempo di lavoro richiesto per la sua produzione fosse costante. Ma esso cambia con ogni cambiamento della forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro è determinata da molteplici circostanze, e, fra le altre, dal grado medio di abilità dell'operaio, dal grado di sviluppo e di applicabilità tecnologica della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione, dall'entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione, e da situazioni naturali. P. es. la stessa quantità di lavoro si presenta in una stagione favorevole con 8 bushel di grano, in una situazione sfavorevole solo con quattro.”

Se però la produttività rimane costante (vengono prodotti sempre 8 bushel di grano) ma cresce la sua domanda, per l'effetto ad esempio di un aumento della popolazione, non si spiegano, con questa teoria, le variazioni di prezzo del grano relativamente agli altri beni, la cui domanda è rimasta costante (ad esempio gli aratri).

Infine Marx sostiene che nello scambio vi sono due fattori:

la motivazione dello scambio, cioè per consumare il bene che riceverò, ovvero quello che Marx chiama “valore d'uso”

il rapporto di scambio (5 letti per una casa) che è dato invece dal valore-lavoro

In poche parole se voglio comprare un panino è perché ho fame ma il prezzo che sono disposto a pagare (ovvero il valore di scambio con gli altri beni e con la moneta) è determinato solo dal lavoro necessario a produrlo.

Questo ci conduce alla situazione assurda in cui se il negoziante fissa per un panino un prezzo maggiore del suo valore-lavoro, gli avventori si rifiutano di acquistarlo (pur avendone la possibilità economica!) fino al punto di morire di fame.

Insomma il mondo descritto da Marx è un mondo fittizio popolato di automi che mettono ogni giorno a repentaglio la loro vita, non la realtà.


La teoria neoclassica, il valore soggettivo e l'utilità marginale

Nella teoria neoclassica, invece, è l'individuo ad esprimere il giudizio di valore, che pertanto diventa soggettivo e lo fa ricorrendo al concetto di utilità.

Gli uomini, si dice, desiderano acquisire i beni per consumarli e soddisfare i propri bisogni. Ad esempio compriamo un panino perché abbiamo fame, ma potremmo preferire un hamburger oppure, se siamo vegetariani, optare per un'insalata.

E' quindi l'individuo a dare valore alle cose in base alle sue preferenze ed alla situazione in cui si trova: difficilmente daremo lo stesso valore ad un gelato in inverno ed in estate!

Il giudizio di valore, inoltre, non si esprime soltanto riguardo la categoria generale (preferisco l'acqua alla coca cola per dissetarmi) ma anche riguardo quantità differenti dello stesso bene: è la cosiddetta legge dell'utilità marginale decrescente.

Gli economisti neoclassici sostengono che ogni unità addizionale dello stesso bene/servizio che consumiamo ci fornisce una quantità di utilità inferiore alla precedente.

Se John è affamato otterrà molta utilità dal mangiare un bel panino. Se ne avrà a disposizione un secondo sarà contento e lo mangerà volentieri, ma traendone meno soddisfazione rispetto al primo e così via per ogni panino addizionale.

John ovviamente preferirà sempre avere più panini a disposizione ma ogni panino extra aggiungerà meno utilità al totale.

Se introduciamo il concetto di valore soggettivo e di utilità marginale ecco che lo scambio (e la nozione di scambio equo) diventa qualcosa di molto diverso rispetto alla formulazione classica.

Proviamo a vedere un esempio.

Marco e Luca collezionano figurine di calciatori e sono entrambi arrivati ad un passo dal completare il loro album: a Marco manca la figurina di Ibrahimovic ed a Luca quelle di Ronaldo e Del Piero.

Fortunatamente entrambi hanno un po' di figurine doppie e Marco si trova proprio a possedere in copia multipla sia Ronaldo che Del Piero, mentre Luca ha un Ibrahimovic extra che è disposto a scambiare.

Lo scambio avviene.

Poiché ora sia Marco che Luca possono completare la loro collezione, entrambi preferiscono la situazione attuale a quella precedente e sono convinti di averci guadagnato.

Non si ha più uno scambio equo quando vengono trattate merci di pari valore ma quando entrambe le parti valutano di più ciò che ricevono rispetto a ciò che danno in cambio.


Homo oeconomicus e critica alla teoria neoclassica del valore

Secondo la teoria neoclassica l'individuo cerca di massimizzare la sua utilità ma, ovviamente, ha un vincolo di bilancio da rispettare. Poiché ogni unità addizionale di un certo bene (il secondo panino) conferisce meno utilità rispetto a quella precedente il nostro homo oeconomicus sarà disposto a spendere di meno per acquistarla.

Di fronte a diversi beni che hanno lo stesso prezzo agirà in modo razionale ed opterà per l'acquisto di un'unità di quello che gli conferisce un'utilità maggiore e così via.

Si può quindi stabilire un criterio per raggiungere l'utilità massima: spendere i propri soldi in modo che l'utilità marginale dell'ultimo euro che state per spendere sia la stessa per ogni bene che potete acquistare.

In altre parole avete speso bene ed in modo razionale i soldi che avevate ed ora non c'è modo di aumentare ulteriormente la vostra utilità spendendo il poco che vi è rimasto nel portafoglio.

Ma se l'uomo marxiano era completamente avulso dalla realtà anche l'homo oeconomicus, questo calcolatore perfetto e pienamente consapevole dei suoi bisogni, è un qualcosa che difficilmente si trova in natura.

Inoltre si è parlato del concetto astratto di utilità, questa quantità che aumenta e diminuisce consumando i beni, ma non si è ancora spiegato bene come e perché consumare qualcosa ci porti beneficio.

Come si può infatti parlare di utilità che un bene ci offre senza ragionare dello scopo per cui lo consumiamo? Questo è l'approccio della scuola Austriaca di economia.


La teoria dell'utilità marginale secondo la dottrina austriaca

Gli economisti austriaci incentrano il loro studio sull'azione dell'uomo intesa come comportamento intenzionale: ogni individuo, in sintesi, utilizza i mezzi che ha a disposizione per cercare di raggiungere i propri obiettivi.

Ovviamente ci sono delle priorità da rispettare e quindi l'azione dell'individuo sarà volta a soddisfare prima i bisogni che sono reputati più urgenti (come mangiare, bere, etc.) e poi via via tutti gli altri, ordinati secondo l'importanza a loro attribuita.

Secondo questa interpretazione il panino fornisce utilità a John perché soddisfa il suo bisogno di nutrirsi: un secondo panino potrà servire ancora a questo scopo, anche se i morsi della fame sono già stati placati, ma sicuramente dopo un po' John avrà la pancia piena e passerà ad altro.

Consideriamo ora la seguente situazione:

Paolo il pizzaiolo ha prodotto quattro pizze. Queste ultime sono le risorse che ha disposizione (i suoi mezzi) per riuscire a raggiungere i suoi obiettivi.

Ipotizziamo che la sua priorità più alta sia avere qualcosa da mangiare e che quindi conserverà una delle pizze appena sfornate per raggiungere questo obiettivo. Il secondo obiettivo di Paolo è dissetarsi con una bottiglia di birra ed è fortunato perché riesce a trovare qualcuno d'accordo a scambiarla con lui in cambio di una pizza. Il nostro pizzaiolo utilizzerà la terza pizza come mezzo per raggiungere il suo terzo obiettivo, che è comprarsi una maglietta, mentre con l'ultima pizza cercherà di ottenere un cappello nuovo

Osserviamo innanzitutto che, mentre per raggiungere il primo obiettivo Paolo può servirsi dei suoi prodotti (le pizze), per gli altri è costretto ad effettuare degli scambi: la pizza viene scambiata con una bottiglia di birra.

Ciò che dà valore ad un bene è quindi la sua particolare attitudine a soddisfare il fine che si sta perseguendo: diamo valore ad una fetta di pizza quando il nostro scopo è sfamarci, ad una bottiglia d'acqua quando vogliamo dissetarci e così via.

Parafrasando Machiavelli è il fine che ci fa dar valore ai mezzi.

Concentriamoci ora sulle risorse a nostra disposizione: le pizze.

Innanzitutto bisogna osservare che le pizze sono “intercambiabili” tra loro. Paolo le ha appena sfornate tutte e quattro ed ancora non sa quale mangerà, quale verrà scambiata per la birra, quale per la maglietta e quale per il cappello; sa soltanto che quelle quattro pizze gli permetteranno di raggiungere quei quattro obiettivi.

Non potendo distinguere tra le diverse pizze Paolo dovrà attribuire a ciascuna uno stesso valore soggettivo: lo possiamo constatare tutti i giorni quando entriamo in un negozio ed osserviamo che gli stessi articoli hanno tutti lo stesso prezzo.

Quant'è questo valore che Paolo attribuisce alle singole pizze?

Abbiamo visto che quando effettuiamo uno scambio valutiamo di più ciò che riceviamo rispetto a ciò che abbiamo dato.

Poiché Paolo ha mangiato la pizza evidentemente preferiva sfamarsi rispetto al conservare la pizza intera. Allo stesso modo possiamo affermare che preferiva una bottiglia di birra, la maglietta ed il cappello alle tre pizze che ha scambiato per ottenerli.

Il valore attribuito alle pizze dipende quindi dall'ultimo obiettivo (comprarsi il cappello) che è stato raggiunto tramite il loro impiego.

La quarta ed ultima pizza a disposizione di Paolo, che viene impiegata per raggiungere questo fine è chiamata unità marginale oppure unità al margine e dal momento che soddisfa il bisogno meno importante diciamo che offre il beneficio minore.

Consideriamo ora la situazione in cui Paolo riesca solo a preparare tre pizze. Questa volta il nostro pizzaiolo sarà in grado di soddisfare solo i primi tre obiettivi e quindi l'unità marginale sarà la terza, quella che gli permette di comprare una maglietta. Dal ragionamento precedente possiamo dedurre che le pizze avranno per Paolo il valore dell'ultimo fine soddisfatto (comprarsi la maglietta), quindi un valore superiore a quello del caso precedente.

Generalizzando possiamo affermare che quando il numero di pizze offerte diminuisce (da 4 a 3) l'importanza dell'unità marginale aumenta (da “comprarsi il cappello” a “comprarsi una maglietta”) e viceversa.

L'utilità marginale non è quindi, per gli economisti austriaci, un'aggiunta all'utilità totale dell'individuo ma piuttosto il valore del fine marginale (l'ultimo in ordine di importanza che viene soddisfatto).


All'assalto della Fed!

In questi ultimi tempi stiamo assistendo a due movimenti antitetici.

Da una parte c'è il mondo bancario che, dopo aver scaricato sul contribuente i costi della crisi tramite i propri "amici" della Federal Reserve, ora se la ride sotto i baffi sentendo che il Presidente Obama intende affidare alla Fed nuovi "superpoteri" per rgolamentare le istituzioni finanziarie. In pratica è come mettere Bernando Provenzano alla testa della Direzione Investigativa Antimafia.

Dall'altra però sta crescendo un malcontento generale verso la Federal Reserve che nasce dalla consapevolezza del suo ruolo nell'aver creato la bolla immobiliare e che ha trovato nel Repubblicano, ma di matrice libertaria, Ron Paul il suo paladino.



Dobbiamo fermare la Fed!
di Ron Paul

Il nostro paese si trova nel mezzo della peggiore crisi economica dagli anni 30 e, come è successo durante tutte le crisi economiche, la gente cerca risposte sul perché sia successo. Non solo sono state colpite le grandi aziende finanziarie ma anche capisaldi dell’industria americana come GM e Chrysler, e giù sino ai negozi di alimentari di paese. La strada più facile è dare la colpa ai soliti capri espiatori: governi stranieri, affaristi fraudolenti ed avidi speculatori. Ma il vero cattivo è molto più sinistro; è l’organizzazione a cui abbiamo affidato il compito di mantenere stabile il valore del dollaro e garantire la stabilità dell’economia: è la Federal Reserve.
Negli Stati Uniti, la politica monetaria è stata sotto il controllo della Federal Reserve sin dalla sua creazione nel 1913. Da allora abbiamo subito un certo numero di recessioni cicliche, ognuna preceduta da un boom causato dalla politica monetaria espansiva della Federal Reserve. Il problema con la Fed è che interferisce con i mercati nel determinare i prezzi. I tassi di interesse sono un prezzo come ogni altro e si creano per il fatto che la gente preferisce consumare nel presente piuttosto che nel futuro. Il quanto a lungo la gente vuole differire nel tempo i propri consumi si riflette nei tassi di interesse i quali, in un mercato libero, sono determinati spontaneamente dall’interazione e dalle decisioni di milioni di persone.
L’intervento della Fed nel fissare i prezzi catapulta questi ultimi ed i mercati fuori dall’equilibrio. Quando la Fed spinge i tassi al di sotto del livello che il mercato avrebbe determinato, in tantissimi voglio prendere soldi in prestito per finanziare progetti a lungo termine. Si verificherebbe una carenza di denaro da prestare se la Federal Reserve non fosse in grado di creare moneta dal nulla. Infatti la Fed può stampare banconote o creare un conto su di un computer per milioni o miliardi di dollari e poi spenderli nell’economia.
I prestiti diventano più a buon mercato ed il risultato di questi tassi di interesse così bassi è un boom economico che alla fine si trasforma inevitabilmente in una bolla speculativa. Ad iniziare dal 2001, la Fed ha spinto i tassi di interesse sino all’1%, tasso che se consideriamo l’inflazione è addirittura negativo, quindi le aziende facevano soldi semplicemente contraendo un prestito. Questo è stato il carburante che ha alimentato la bolla immobiliare e questa è la ragione per cui oggi vi sono 19 milioni di case vuote.
Grazie a questo enorme potere di creare denaro dal nulla, la Fed è ora intervenuta per stabilizzare alle varie aziende finanziarie in difficoltà, promettendo più di 7000 miliardi di dollari in vari programmi di garanzia e di credito agevolato. Ciò equivale a più di metà del prodotto nazionale lordo. Più di 1000 miliardi di dollari sono già entrati in azione, tenendo in piedi banche ed altre istituzioni che avrebbero dovuto fallire. Tutto questo è avvenuto senza alcuna supervisione da parte del Congresso. La Fed è stata creata dal Congresso ed è incosciente che la lasciamo operare così senza alcun controllo. Ora come ora le agevolazioni dal credito della Fed, le operazioni di mercato aperto, gli accordi con i governi stranieri e con le altre banche centrali sono tutti esclusi da ogni sorta di verifica o controllo. Qualche tempo fa, quest’anno, ho introdotto il Federal Reserve Transparency Act, HR 1207, che intende rimuovere tutte le restrizioni ai controlli verso la Fed e promuovere un controllo completo del Federal Reserve System da completare entro la fine del 2010. Ad oggi 245 dei miei colleghi hanno controfirmato questa proposta di legge e speriamo di ottenere un dibattito in futuro. Al Senato, i Repubblicani Jim de Mint, Mike Crapo e David Bitter hanno controfirmato la proposta gemella S.604, introdotta da Bernie Sanders. Sono incoraggiato da come sta crescendo il sostegno a queste proposte a Capital Hill.
I nostri Padri Fondatori non volevano che esistesse una singola entità come la Federal Reserve ottenesse così tanto potere. In realtà il governo federale non aveva nessuna autorità costituzionale per creare una banca centrale, emanare leggi sul corso legale o per stampare moneta cartacea. Il decimo emendamento è abbastanza chiaro nel dichiarare “I poteri che non sono espressamente delegati agli Stati Uniti dalla Costituzione, e che non sono da essa proibiti agli Stati, sono riservati agli Stati stessi, o al popolo.” Agli Stati è tra l’altro proibito stampare moneta cartacea, proibizione nata dall’esperienza negativa che i Padri Fondatori avevano avuto durante la Rivoluzione. Una moneta cartacea senza controvalore, facilmente contraffatta e stampabile a piacimento era quasi costata la Rivoluzione, almeno sino a quando il governo tornò a coniare monete d’oro e d’argento. Sfortunatamente, come molte altre lezioni imparate dai Padri Fondatori, anche la dolorosa esperienza della moneta di carta è stata dimenticata da chi vive oggi. Ignoriamo persino l’esperienza dei tedeschi negli anni ’20, degli Argentini negli anni 80 e dello Zimbabwe nell’ultima decade. La Fed ha raddoppiato la base monetaria lo scorso autunno in pochi mesi e Dio ci aiuti se parte di quei soldi inizierà a circolare nell’economia.
Un controllo della Fed è solo il primo passo per far tornare il nostro paese laddove i nostri Fondatori volevano che fosse. I Fondatori sapevano che la moneta di carta può rovinare un paese e scrissero la Costituzione in modo che, almeno così pensavano, assicurasse una moneta merce sana. Sfortunatamente facciamo a meno da tempo della Costituzione e ora ci troviamo a soffrire sotto un regime anticostituzionale di moneta cartacea. Fino a quando non aboliremo la Federal Reserve e ritorneremo ad una moneta stabile che non può essere manipolata per creare cicli di espansione e recessione, continueremo a percorrere il sentiero che conduce alla rovina economica.