Hyperinflation Nation

Parte prima



Parte seconda



Parte terza

Il mercato, lo Stato ed il gioco d'azzardo: il caso del poker texano

Howard Lederer, che tra i più famosi giocatori di poker è conosciuto con il soprannome di “professore”, ha definito il texas hold’em come “un gioco competitivo con informazioni imperfette(*)”. Ogni giocatore, infatti, possiede delle informazioni in quanto conosce le proprie carte e quelle comuni ma ovviamente non ha perfetta informazione perché non conosce né le carte degli avversari né le carte che devono ancora uscire.

Certamente non è da trascurare il ruolo della fortuna che, specialmente sulla singola mano, può avere un ruolo determinante ma, usando le parole di Machiavelli, “iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre”. Insomma gli scoppi ci sono sempre ma i giocatori bravi sono capaci di buttar via le carte anche con una mano fortissima se “leggono” l’avversario e capiscono di essere battuti.

Infine aggiungerei ancora una postilla alla definizione di Lederer in quanto la struttura dei bui fa sì che con il passare del tempo il “costo del gioco” aumenti progressivamente, generando un vero e proprio ambiente “inflazionario”.

In sintesi il poker è “un gioco competitivo con informazioni imperfette, in cui la fortuna ha un ruolo pari all’abilità e che nei tornei si svolge in un ambiente altamente inflazionarlo”.

Se ricordiamo le parole di Hayek, per cui la competizione di mercato era, in qualche maniera, come “giocare una partita di un gioco basato in parte sull’abilità ed in parte sulla fortuna il cui esito non è noto in partenza” possiamo notare come ci sia più di una analogia tra il mercato concorrenziale ed una partita di poker

Non di questo, però, volevo parlare ma piuttosto di come lo Stato è intervenuto nel settore del poker regolamentando e di quale sono state e saranno le conseguenze di tale intervento.

Il boom del poker in Italia

Si può dire che il texas hold’em sia sbarcato in Italia tramite la.. televisione. E’ stato infatti lo show televisivo di Italia 1, Poker Mania, condotto da Giacomo “Ciccio” Valenti e da Luca Pagano, a portare il fenomeno del poker nelle case degli Italiani.

Il gioco è piaciuto sin da subito e presto migliaia di potenziali giocatori si sono trovati di fronte ad alcuni problemi:

- E’ legale giocare a poker texano? Dove posso farlo?

La legge italiana, infatti, è ambigua e se da una parte proibisce esplicitamente il gioco d’azzardo, salvo poi riproporlo come “sicuro” sotto la gestione monopolistica statale, dall’altro consente di giocare a carte, se non vi è premio in denaro, anche in locali “pubblici” come i bar.

Come fare dunque a giocare live? La risposta dei singoli, ovvero del mercato, non si è fatta attendere. Tra la fine del 2007 ed il 2008 sono spuntati come funghi dei club di poker sportivo in cui i giocatori si riunivano per disputare i tornei di Texas Hold’em.

L’unico problema era ovviamente quello di non erogare premi in denaro (solo i casinò autorizzati possono farlo) ma quest’ultima poteva essere facilmente aggirata offrendo come premi dei “punti” da convertire in premio tramite appositi cataloghi (Ovviamente nulla impediva che poi avvenisse, al di fuori del torneo, una riconversione da premio a denaro).

Anche con il sistema dei punti potevano però essere realizzati degli eventi interessanti come campionati cittadini o regionali, satelliti per eventi internazionali e così via.

Ovviamente poi c’era la possibilità di giocare liberamente online.

Il decreto Bersani e la legislazione del gioco online: il poker è un gioco di abilità ma giocate solo dove e come decidiamo noi!

Contestualmente, nel maxi-decreto Bersani del 2006 - quello che fece arrabbiare i taxista ed i farmacisti per intenderci – si parlava per la prima volta di regolamentare gli skill games, definiti come:

“giochi di abilità a distanza con vincita in denaro, nei quali il risultato dipende, in misura prevalente rispetto all'elemento aleatorio, dall'abilità dei giocatori”

Lo Stato faceva quindi la sua comparsa stabilendo giustamente che il gioco del poker online non era d’azzardo ma gioco d’abilità – tacendo invece sul gioco live – ma arrogandosi il diritto di regolamentarlo – ovviamente per il nostro bene – e certificare quali fossero i concessionari autorizzati a fornire il servizio. Come recita Wikipedia:

“Oggi anche in Italia tutti possono giocare da casa nella completa sicurezza, senza commettere un’illegalità, nella tranquillità di sapere i software certificati da un Ente Pubblico, e con la possibilità di giocare ed esigere le vincite. Infatti, il 2 settembre 2008 è stata lanciata la prima Poker Room legale in Italia, Gioco Digitale, alla quale altre si sono aggiunte nel giro di poco tempo.”

Come facevamo infatti a sapere, senza certificazione statale, che il software di una room come Pokerstars o Full Tilt, per citare le più grandi, non fosse sicuro? Ad esempio dal fatto che sia Pokerstars, sia Full Tilt (e tutte le altre room) avessero provveduto da sole a farsi certificare da agenzie indipendenti come Cigital e Technical System Testing. Dal momento che una poker room ha interesse ad attirare il maggior numero di giocatori – guadagna infatti una commissione su ogni partita giocata – è chiaro che in un mercato libero essa abbia tutti gli incentivi ad intraprendere ogni controllo necessario affinché i giocatori abbiano fiducia nel prodotto che usano.

Dopo l’intervento dello Stato “a garanzia dei giocatori” si è invece costituito un oligopolio in cui i servizi ed i montepremi sono meno ricchi di quelli delle corrispondenti room “illegali” in quanto lo Stato ha reclamato la sua fetta di guadagno che è stata tolta dalla torta destinata ai giocatori.

Che fosse soltanto una questione di soldi è stato poi dimostrato, per l’ennesima volta, dal comportamento del legislatore riguardo al gioco cash. Il regolamento stabilito nel 2007 aveva infatti stabilito come legale solo la modalità torneo con una quota di iscrizione non superiore ai 100 euro ma in un successivo decreto di qualche mese fa è stato deciso di legalizzare anche “il poker non a torneo online”

Il perché è presto detto. Questa normativa, infatti, non è parte di un provvedimento legislativo volto a regolamentare il gioco del poker ma si trova all’interno del decreto “per la ricostruzione dell’Abruzzo” e non è altro che una norma volta a far cassa per ricostruire le casse dei terremotati. Passata l’emergenza in Abruzzo, la tassazione del cash game online entrerà a far parte del normale flusso di denaro che lo Stato riceve attraverso la tassazione del gioco d’azzardo.

Online legale e live no?

I circoli di poker live hanno costituito indubbiamente una parte importante nella promozione del poker sportivo. Sotto l’ombrello dell’incertezza legislativa alcuni circoli hanno avuto successo, altri sono falliti e alcuni altri continuano spinti non tanto dai profitti quanto dalla passione per questo gioco.

Come sempre accade ci sono stati episodi non virtuosi di circoli che si sono trasformati in vere e proprie bische clandestine, con altri giochi d’azzardo che si accompagnavano ai tornei di poker, ma nel complesso si può dire che nella stragrande maggioranza dei casi nelle “bische clandestine” che spesso vengono chiuse con tanto clamore mediatico non si facesse altro che praticare dal vivo quanto è perfettamente legare fare online. (Alcuni esempi 1, 2)

Niente paura. E’ infatti in arrivo la legge che regolamenterà il poker live e che metterà presto fine a questa incertezza legislativa. Potranno infatti organizzare tornei di texas hold’em soltanto alcune categorie di concessionari: quelli che hanno già una licenza AAMS oppure quelli in possesso dei requisiti fissati al comma 15 della legge (sede legale o operativa nello Spazio Economico Europeo, costituzione come società di capitali, prestazione all'Aams di una fideiussione bancaria per 1,5 milioni, etc),

In poche parole: la morte definitiva dei circoli live.

Ricordiamoci sempre: il mercato, lasciato privo di regole, genera spontaneamente monopoli ed oligopoli, l’individuo non è in grado di scegliere e se lasciato a sé stesso va a sperperare tutti i suoi averi nel gioco d’azzardo.

E’ quindi compito dello Stato generare oligopoli in maniera più efficiente e farsi carico di intercettare lui stesso gli averi sperperati dal giocatore.

(*) un esempio di gioco competitivo con perfetta informazione è costituito dagli scacchi.


La storia fallimentare del controllo dei prezzi: I Promessi Sposi

E’ un peccato che a scuola si impari, spesso, ad odiare i capolavori della letteratura italiana. Quanti si ricordano ad esempio questo pezzo, tratto dai Promessi Sposi, in cui Manzoni descrive in maniera splendida ed efficace quanto sia inutile e dannoso ogni tentativo di controllo dei prezzi?

I Promessi Sposi: Cap. XII

Di Alessandro Manzoni

Era quello il second'anno di raccolta scarsa. Nell'antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora, questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerra, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell'ordinario rimanevano incolti e abbandonati da' contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, eran costretti d'andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell'ordinario; perché le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e con un'insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle truppe alloggiate ne' paesi, condotta che i dolorosi documenti di que' tempi uguagliano a quella d'un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo di mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo, erano come una repentina esacerbazione d'un mal cronico. E quella qualunque raccolta non era ancor finita di riporre, che le provvisioni per l'esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro.

Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un'opinione ne' molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d'averla temuta, predetta; si suppone tutt'a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. Gl'incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d'averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l'abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov'erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s'indicava il numero de' sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell'immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne' quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le granaglie di là venivano a Milano. S'imploravan da' magistrati que' provvedimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto, murato, sepolto, come dicevano, e a far ritornar l'abbondanza. I magistrati qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d'alcune derrate, d'intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d'attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de' rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de' più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l'uomo secondo il suo cuore.

Nell'assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che comandava l'assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l'avrebbe veduto? che l'essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la meta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo.

Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d'una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti; ma all'esecuzione di questo vegliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che dànno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l'era una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall'altra il popolo che voleva esser servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse, pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giustizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c'era redenzione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continuare in quell'impresa, non bastava che fosse lor comandato, né che avessero molta paura; bisognava potere: e un po' più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Facevan vedere ai magistrati l'iniquità e l'insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l'altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s'erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s'avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell'abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l'impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l'odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d'Antonio Ferrer? il fatto sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche ripiego, che le facesse andare.

Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s'immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l'autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l'altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d'allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c'era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì.


La storia fallimentare del controllo dei prezzi: l'editto di Diocleziano (parte seconda)

I risultati dell’editto

Diocleziano non era stupido (ed infatti, dalle testimonianze sembra che sia stato tra gli imperatori più intelligenti). Sapeva che uno dei primi risultati del suo editto vi sarebbe stato un enorme aumento della tesaurizzazione. Ovvero che gli agricoltori, i mercanti e gli artigiani, non potendo aspettarsi di ricevere quello che consideravano un giusto prezzo per i loro prodotti, non li avrebbero proprio messi sul mercato ma avrebbero aspettato un cambio della legge (o della dinastia).

Stabilì allora che:

“si considererà colpevole anche chi, possedendo abbastanza beni per il vitto e l’utilizzo, abbia deciso di ritirarli dal mercato, poiché la pena [ovvero la morte] meriterebbe di essere più serva per chi causa la penuria che non chi se ne approfitta contro le leggi.” [1]

C’era poi un’altra clausola che prescriveva l’usuale pena per chiunque avesse comprato un bene ad un prezzo più alto di quanto fissato per legge: di nuovo, Diocleziano conosceva bene le normali conseguenze di questi tentativi di regolamentare l’economia. D’altra parte in almeno un aspetto questo editto era più illuminato (da un punto di vista economico) di tante regolamentazioni recenti. “In quei luoghi dove i beni sono abbondanti ,” dichiarava, “le felici condizioni di prezzi bassi non saranno ostacolate – e sia fatta ampia provvista di convenienza laddove l’avidità è frenata e tenuta sotto controllo.”[2]

Frammenti delle liste di prezzi sono state scoperte in circa trenta luoghi differenti, per la maggior parte nella porzione di impero che parlava greco. C’erano almeno 32 tabelle che coprivano più di un migliaio tra differenti prezzi e salari.

I risultati non furono sorprendenti e dalle parole dell’editto, come abbiamo visto, nemmeno inaspettati per l’imperatore. Secondo una testimonianza del tempo,

“quindi stabilì di regolare i prezzi di ogni prodotto. Ci fu molto sangue versato sulla base di racconti molto deboli e sospetti, e le persone non comprarono più sui mercato le loro provvisioni, siccome non potevano ottenere un prezzo ragionevole e questo incrementò così tanto la penuria generale che alla fine, dopo che tanti erano morti a causa sua, la legge fu messa a parte” [3]

Non è certo quanto del sangue a cui questo passaggio allude sia stato causato direttamente dal governo tramite la pena capitale promessa dalla legge e quanto invece sia stato causato indirettamente. Uno storico dei giorni nostri, Roland Kent, crede che gran parte del danno sia stato indiretto. Conclude che,

“In altre parole, i limiti ai prezzi fissati nell’Editto non erano osservati dai mercanti, nonostante che la violazione dello statuto prevedesse la pena capitale; i potenziali compratori, trovando che i prezzi erano al di sopra dei limiti legali, formarono delle bande e assaltarono i negozi dei mercanti, a volte uccidendoli, benché spesso i beni fossero cose di poco valore; accumularono questi beni in vista del giorno in cui le restrizioni sarebbero state rimosse e questo risultò in una maggiore scarsità di merci offerte in vendita causando un ulteriore incremento dei prezzi così che le uniche transazioni che avvenivano erano a prezzi illegali e quindi portate a termine clandestinamente”. [4]

Non si sa esattamente quanto a lungo l’editto rimase operativo: si sa, tuttavia, che Diocleziano, citando le fatiche del governo come causa della sua malattia, abdicò quattro anni dopo che l’editto sui prezzi e salari era stato promulgato. E’ certo che divenne lettera morta dopo l’abdicazione del suo autore. Meno di quattro anni dopo che era stata emanata la riforma della moneta associata con l’editto, il prezzo dell’oro nei confronti del denarius era salito del 250%.

Diocleziano non riuscì ad ingannare la gente e nemmeno a sopprimere la possibilità che le persone comprassero e vendessero al prezzo che ritenevano giusto. Il fallimento dell’editto e della “riforma” monetaria condussero al ritorno alla convenzionale irresponsabilità fiscale ed entro il 305 d.c. il processo di svilimento della moneta era di nuovo cominciato. Entro la fine del secolo questo processo avrebbe prodotto un incremento del 2000% del prezzo dell’oro in denarii.

M. Rostovtzeff, un grande storico del periodo romano, sintetizzato questa infelice esperienza nelle seguenti parole:

"Lo stesso espediente è stato spesso tentato prima e dopo di lui. Come misura temporanea in circostanze critiche può avere una qualche utilità. Ma come misura generale intesa per essere duratura, era certo che generasse un grande danno e causasse un terribile spargimento di sangue, senza portare nessun sollievo. Diocleziano condivideva quella pericolosissima credenza del mondo antico per cui lo stato è onnipotente, un credo che molti teorici moderni continuano a condividere".[5]

Vai alla prima parte

[1] Roland Kent, "The Edict of Diocletian Fixing Maximum Prices," The University of Pennsylvania Law Review, 1920, p. 44.

[2] Ibid., p. 43.

[3] Ibid., pp. 45–47.

[4] Kent, op. cit., pp. 39–40.

[5] M. Rostovtzeff, The Social and Economic History of the Roman Empire (Oxford: Oxford University Press, 1957).


La storia fallimentare del controllo dei prezzi: l'editto di Diocleziano (parte prima)

I prezzi determinati dal mercato non vanno mai bene. C’è chi li ritiene troppo alti e punta il dito contro gli speculatori al rialzo, c’è chi li ritiene troppo bassi ed accusa gli speculatori al ribasso. Spesso e volentieri si ritiene di conoscere quale sia il “giusto prezzo” dei beni e si chiede al governo di stabilizzarlo a quel livello, per evitare l”e oscillazioni causate dalla speculazione”.

Ovviamente sono solo parole a vuoto: ogni volta che un pianificatore ha deciso di fissare i prezzi di mercato le conseguenze non si sono mai fatte attendere e non sono state buone.

Questo pezzo di Rober Scheuttinger, tratto dal secondo capitolo di Forty centuries of wage and price controls, ci racconta le conseguenze del più grande tentativo nella storia di fissare arbitrariamente i prezzi di beni e servizi: l’editto di Diocleziano.

Di Robert L. Scheuttinger

L’editto di Diocleziano

Il più famoso ed esteso tentativo di controllare i prezzi ed i salari avvenne durante il regno dell’imperatore Diocleziano il quale, sfortunatamente per i suoi sudditi, non aveva studiato con attenzione la storia economica della Grecia. Siccome sia le cause dell’inflazione che Diocleziano tentò di mettere sotto controllo, sia gli effetti dei suoi sforzi sono ben documentati, è un episodio che vale la pena considerare in qualche dettaglio.

Poco dopo essere salito al trono nel 284 d.c., “i prezzi di merci di ogni genere ed i salari dei lavoratori raggiunsero livelli mai registrati in precedenza”. I documenti storici in grado di far luce sulle cause di questa rimarchevole inflazione sono limitati. Una delle rare fonti contemporanee che è sopravvissuta, il settimo capitolo del De Moribus Persecutorum, dà tutte le colpe a Diocleziano. Siccome tuttavia l’autore era un cristiano e poiché Diocleziano, tra le altre cose, fu un persecutore dei cristiani, dobbiamo prendere questa testimonianza cum grano salis. Nel suo attacco contro l’imperatori ci viene detto che gran parte dei problemi dell’economia dell’impero erano dovuti al massiccio incremento delle spese militari (ci furono diverse invasioni barbariche durante questo periodo), agli enormi progetti di costruzione (ricostruì gran parte della città che scelse come capitale in Asia Minore, ovvero Nicomedia), al seguente rialzo delle tasse ed all’impiego di un numero spropositato di funzionari governativi ed infine all’uso di schiavi per portare a termine gran parte del suo programma di lavori pubblici. [1] Diocleziano stesso, nel suo editto (come vedremo) attribuiva la colpa dell’inflazione interamente all’avarizia dei mercanti e degli speculatori.

Uno storico classico, Roland Kent, scrivendo per la University of Pennsylvania Law Review, conclude che i dati disponibili mostrano che le cause dell’inflazione di prezzi e salari sono molteplici. Nei 50 anni che precedono Diocleziano, c’era stata una successione di sovrani incompetenti, dal breve dominio, elevati al trono dai militari; questa era di governi deboli risultò in guerre civili, rivolte, incertezza generale e, ovviamente, instabilità economica. Ci fu certamente un significativo incremento nelle tasse, alcune delle quali giustificabili per la difesa dell’impero mentre altre furono spese per grandiosi lavori pubblici di dubbio valore. Aumentando le tasse, però, la base tassabili diminuì e divenne sempre più difficile raccoglierle, risultando in un circolo vizioso. [2]

Sembra chiaro che la singola principale causa dell’inflazione fu il drastico incremento nella massa monetaria dovuto alla svalutazione e svilimento delle monete. Nella tarda repubblica e durante il primo impero, la principale moneta romana era il denarius d’argento, il cui valore fu gradualmente ridotto sino a quando, negli anni prima di Diocleziano, gli imperatori coniavano monete interamente in rame e solo con una sottile patina d’argento, che venivano però ancora chiamate “denarius”. La legge di Gresham, ovviamente, divenne operativa e le monete d’oro ed argento vennero naturalmente tesaurizzate e sparirono dalla circolazione.

Nel cinquantennio che precede la morte di Claudius Victorinus nel 268 .d.c. il contenuto argenteo nelle monete romane diminuì sino ad un cinque-millesimo del suo livello originario. Con il sistema monetario in totale disfacimento, il commercio che era stato il marchio di fabbrica dell’impero lascò il posto al baratto e l’attività economica si spense.

La classe media fu praticamente distrutta ed il proletariato fu ridotto velocemente al livello di servitù. A livello intellettuale il mondo era caduto in uno stato di apatia da cui nulla l’avrebbe risollevato. [3]

In mezzo a questa palude intellettuale e morale arrivò l’imperatore Diocleziano che si incaricò di riorganizzare la società con grande vigore. Sfortunatamente il suo zelo superò la sua comprensione delle forze economiche in gioco nell’impero.

Nel tentativo si superare la paralisi associata ad una burocrazia centralizzata, decentrò l’amministrazione dell’impero e creò tre nuovi centri di potere sotto il comando di tre “imperatori associati”. Siccome la moneta era completamente senza valore, progettò un sistema di tasse basato su pagamenti in natura. Questo sistema ebbe l’effetto, tramite l’aescripti glebae, di distruggere totalmente le libertà delle classi più deboli – divennero servi e furono legati al terreno in modo che il flusso di tasse continuasse a fluire.

Le “riforme” che sono di maggiore interesse, tuttavia, sono quelle relative alla moneta, ai prezzi ed ai salari. La riforma della moneta giunse per prima e fu seguita, dopo che divenne chiaro che era stata un fallimento, dall’editto dei prezzi e dei salari. Diocleziano aveva tentato di instillare un senso di fiducia pubblica nella moneta ponendo termine alla produzione di monete svilite in oro ed argento.

Secondo Kent,

Diocleziano prese il toro per le corna e coniò un nuovo denarius di rame e senza pretese che fosse composto da altri metalli; nel farlo stabilì un nuovo standard di valore. L’effetto di questa mossa sui prezzi non richiede particolari spiegazioni; ci fu un riaggiustamene verso l’alto, molto verso l’alto. [4]

Il nuovo sistema monetaria diede una certa stabilità dei prezzi per un certo tempo ma sfortunatamente, secondo Diocleziano, il livello dei prezzi era ancora troppo alto e fu quindi messo di fronte ad un nuovo dilemma.

La ragione principale per la sopravvalutazione del valore della moneta era, ovviamente, funzionale al mantenimento di una grande armata ed una estesa burocrazia – l’equivalente di un governo moderno. Diocleziano dovette scegliere se continuare a coniare un denarius che valeva sempre di meno oppure se tagliare le “spese governative” e quindi ridurre la necessità di coniare moneta. In termini moderni poteva continuare ad inflazionare o iniziare un processo di deflazione dell’economia.

Diocleziano decise che la deflazione, ottenuta riducendo i costi civili e militari del governo, era impossibile. D’altro canto,

inflazionare sarebbe stato ugualmente disastroso nel lungo periodo. Era stata l’inflazione a portare l’impero sull’orlo del completo collasso. La riforma del sistema monetario era stata fatta per mettere freno a questo male e stava diventando dolorosamente evidente che non avrebbe potuto avere successo. [5]

Fu in queste apparentemente disperate circostanze che Diocleziano, determinato ad inflazionare, decise di farlo in un modo che credeva avrebbe evitato che ci fossero ripercussioni sui prezzi. La strategia fu di fissare il prezzo di beni e servizi e simultaneamente sospendere la libertà dei cittadini di decidere quanto vale la valuta ufficiale. Il famoso editto del 301 d.c. fu scritto proprio per raggiungere questo obiettivo. Chi lo progettò sapeva benissimo che a meno che non fosse imposto un valore universale per il denarius in termini di beni e servizi – un valore che era totalmente disallineato da quello reale – il sistema che avevano costruito era destinato a fallire. Perciò l’editto fu persuasivo nel suo voler coprire ogni cosa e severissimo nelle pene.

L’editto fu proclamato nel 301 d.c. e secondo Kent, “il suo preambolo è abbastanza lungo e scritto in un linguaggio che è difficile, oscuro e prolisso come pochi altri scritti in latino”.[6] Evidentemente Diocleziano intendeva rimanere sulla difensiva mentre annunciava una legge così rivoluzionaria, che avrebbe condizionato la vita di ogni persona dell’impero in ogni giorno della settimana; utilizzò considerevoli artifici retorici per giustificare le sue azioni, retorica che era stata usata già prima di lui e che fu riutilizzata, con delle variazioni, molte volte in futuro.

Inizia elencando i suoi tanti titoli e poi va vanti annunciando che “E’ un onore ed è degno per la nazione e la grandezza di Roma chiedere che la buona sorte per il nostro Stato… sia anche fedelmente amministrato… certo se un qualche spirito di autocontrollo tenesse a freno queste pratiche che sono infiammate dalla crescente e smisurata avidità… allora ci sarebbe ancora posto per chiudere gli occhi e rimanere in pace, perché la resistenza unita delle mente umani potrebbe alleviare queste detestabili enormità e pietose condizioni [ma siccome non è probabile che l’avidità si autocontrolli]… sembra a noi, che siamo vigili genitori della intera razza umana che la giustizia funga da arbitro in questo caso, in modo che i rimedi che il nostro pensiero ci suggerisce portino a raggiungere, per il sollevo di tutti, quel risultato a lungo sperato, che l’umanità non riesce a raggiungere da sola[7]

In “The common people of Ancient Rome”, Frank Abbot riassume l’essenza dell’editto con le seguenti parole:

Nel suo tentativo di abbassare i prezzi a ciò che considerava un livello normale, Diocleziano non si accontentò di mezze misure [..] ma fissò risolutamente il prezzo massimo al quale la carne, il grano, le uova, i vestiti e tutti gli altri articoli dovevano essere venduti [ed anche i salari di tutti i lavoratori] e prescrisse la pena di morte per chiunque avesse venduto i suoi beni ad un prezzo maggiore. [8]

Vai alla seconda parte


[1]Roland Kent, "The Edict of Diocletian Fixing Maximum Prices," The University of Pennsylvania Law Review, 1920, p. 37.

[2] Ibid., pp. 37–38

[3] H. Michell, "The Edict of Diocletian: A Study of Price-Fixing in the Roman Empire," The Canadian Journal of Economics and Political Science, February 1947, p. 3.

[4] Kent, op. cit., p. 39.

[5] Michell, op. cit., p.5

[6] Kent, op. cit., p. 40.

[7] Ibid., pp. 41–42.

[8] Frank Abbot, The Common People of Ancient Rome (New York: Scribner, 1911), pp. 150–151.


Confondere causa ed effetto

In televisione non lo sentirete mai dire ma secondo gli economisti la crisi è in gran parte colpa vostra. Sì, certo, ci sono stati tutti quei casini nei mercati finanziari, sono fallite delle banche, gli Stati hanno deciso di intervenire e scaricare i costi sui contribuenti ma basterebbe poco per far terminare questa crisi e far tornare tutti prosperi e felici.

“Dovete spendere gente! Mettete mano al portafoglio e spendete! Comprate qualsiasi cosa, indebitatevi fino al collo e ripartirà l’economia!”

Ovviamente non sentirete queste precise parole ma il succo è quello. L’idea che è alla base di questo ragionamento deriva dalla teoria keynesiana.

Secondo Keynes, in tempi normali, c’è un alto livello di occupazione e tutti spendono tranquilli il loro reddito. Poiché la mia spesa dal panettiere diventa il suo reddito allora si può parlare d di flusso circolare di denaro nell’economia.

Ma se capita qualcosa che fa cadere la fiducia dei consumatori allora questi ultimi potrebbero cercare di mettere via da parte del denaro in attesa di tempi più duri. Ma poiché la mia spesa è parte del tuo reddito allora la mia decisione di mettere da parte del denaro non fa altro che peggiorare le cose per te. Anche tu allora spenderai di meno generando un circolo vizioso che renderà le cose peggiori per tutti (il famoso paradosso del risparmio)

La soluzione, secondo Keynes, è che la Banca Centrale stampi un sacco di soldi e li metta nelle mani della gente, facendo ritornare la fiducia e facendo ripartire il sistema. Vabbé c’è quel piccolo problema dell’inflazione, ma chi se ne importa!

A volte però, sempre secondo Keynes, si può cadere nella trappola della liquidità, ovvero voi consumatori, spaventati come siete, continuate a rifiutarvi di spendere anche se le stampanti della Fed lavorano a pieno regime (almeno lì non c’è mai crisi!). In questo caso, scrive Keynes, se non volete spendere voi, dovrà pensarci lo Stato!

I Giapponesi però, che sono sempre all’avanguardia e che seguendo i consigli di Keynes sono in una depressione economica da quasi 20 anni, ora hanno la soluzione finale a questo annoso problema.

Se la montagna non va da Maometto, sarà Maometto ad andare alla montagna. Se i consumatori non vogliono spendere i loro contanti, basterà abolire il denaro contante!

Questi approcci, in realtà, vanno come al solito a confondere la causa con l’effetto. Perché , infatti, la gente accumula denaro nel suo portafoglio e non corre a spenderlo? Ce lo spiega Rothbard

Supponiamo che tutti noi fossimo capaci di predire il futuro con assoluta certezza. In questo caso, nessuno avrebbe bisogno di contanti. Ognuno saprebbe esattamente quanto spenderà e quanto guadagnerà a tutte le date future. Si presterebbe allora tutto l’oro in modo da ricevere i pagamenti esattamente alle date fissate per regolare i costi di tutte le spese. Ma naturalmente noi viviamo di necessità in un mondo di incertezza. La gente non sa di preciso che cosa accadrà e quali saranno le entrate e uscite future. Più si sente incerta e timorosa e più liquidità vorrà mettere da parte; quanto più si sente invece sicura, tanto meno avrà bisogno di accumulare contanti. Un’altra ragione per tenere contanti dipende dall’incertezza del mondo reale. Se la gente pensa che il prezzo della moneta scenderà nel futuro prossimo, spenderanno adesso che la moneta ha più valore, riducendo così l’incetta e riducendo la domanda di moneta. Se invece ci si attende una rivalutazione della moneta, gli acquisti saranno ritardati finché la moneta avrà più potere d’acquisto e in questo modo aumenterà la domanda di liquidità. La domanda della gente per liquidità contante sale e scende quindi per buone ragioni.

Gli economisti sono in errore quando pensano che c’è qualcosa che non va se la moneta non è in una “circolazione” continua. La moneta è utile solo per il suo valore di scambio, ma non è utile solo nel momento fattuale dello scambio. Questa verità è stata spesso ignorata. La moneta è utile anche quando rimane inattiva nei contanti di una persona, anche negli accaparramenti dell’avaro. La sua utilità consiste nel permettere al suo proprietario in ogni momento, presente o futuro, di intraprendere gli scambi che desidera. Si deve inoltre ricordare che ogni porzione di oro deve essere nella proprietà di qualcuno, e che deve pur essere la liquidità di qualcuno. Se ci sono 3000 tonnellate di oro nella società, esse devono per forza far parte della liquidità di membri della società. La somma totale della liquidità privata sarà la quantità totale di moneta presente nella società.

Così come la febbre è la reazione del corpo umano contro una infezione virale, così la tesaurizzazione è la difesa contro l’incertezza del futuro. Non è eliminando il denaro contante che torna la fiducia nell’economia così come non è eliminando la febbre che si guarisce dall’influenza.


Greenspan: "Se c'è una banca centrale non esiste un libero mercato"

Le agenzie governative hanno la peculiarità di acquistare più potere tramite i loro errori. Non fa eccezioni la Fed, la più potente delle agenzie governative, che dopo aver causato la bolla immobiliare e dopo aver portato al disastro economico degli ultimi mesi, ora riceverà ancora più poteri per salvare il libero mercato da sé stesso, regolare gli enti finanziari ed “evitare ulteriori rischi in caso di crac dell'economia”

Insomma, dopo aver dato alla volpe le chiavi del pollaio, ora Obama consegna gentilmente anche la chiave della porta posteriore, casomai la porta principale si bloccasse per l’umidità.

Proprio in questi giorni è tornata alle cronache una vecchia intervista di Greenspan al Daily Show di Jon Stewart, datata settembre 2007, in cui il comico americano poneva alcune semplici, ma dirompenti, domande al grande “Maestro”.


The Daily Show With Jon StewartMon - Thurs 11p / 10c
Alan Greenspan
thedailyshow.com
Daily Show
Full Episodes
Political HumorJason Jones in Iran


Ecco una traduzione di alcune battute:

Stewart: (dopo che Greenspan ha spiegato l’effetto delle mosse inaspettate della Fed sui mercati) . Quindi la Fed o chiunque ne sia alla guida, se volesse potrebbe rovinarci tutti.

Greenspan: (sorridendo) Non lo vorresti..

Stewart: Quando dici “Open market” io penso sempre… ma perché abbiamo la Fed? Non dovrebbe essere il mercato a determinare i tassi di interesse ed il resto? Perché abbiamo qualcuno che fissa i tassi di interesse se siamo in una società di libero mercato?

Greenspan: Non avevamo bisogno di una banca centrale mentre eravamo nel Gold Standard… la gente avrebbe venduto e comprato oro ed i mercati avrebbero fatto ciò che la Fed fa oggi… per gli anni 30 quasi tutti nel mondo decisero che il Gold Standard stava strangolando l’economia e quindi fu universalmente abbandonato…

….ora serve qualcuno o qualche meccanismo per determinare quanta moneta ci deve essere perché il quantitativo di moneta in un economia determina il quantitativo di inflazione.

Stewart: Quindi non siamo in un mercato libero – c’è un’invisibile, c’è una “benevola” mano che ci tocca..

Greenspan: Hai assolutamente ragione. Laddove c’è una banca centrale che determina il quantitativo di moneta nel sistema, quello non è un mercato libero, e molta gente la chiama “regolamentazione”

Stewart: Quando abbassate il tasso di interesse, indirizzate il denaro verso il mercato azionario ed abbassate il rendimento che le persone ricevono sui loro risparmi

Greenspan: Sì, certamente

Stewart: Quindi hanno fatto una scelta – “Ci piacerebbe favorire quelli che investono in azioni e non quelli che risparmiano”…

Greenspan: Questo è ciò che accade ma non è come lo pensiamo noi.

Stewart: Spiegami. Mi sembra che noi favoriamo gli investimenti ma non favoriamo il lavoro. La maggioranza delle persone lavora, paga le tasse ed usa le banche. E poi c’è quest’altro mondo degli hedge fund e scommette al ribasso.. sai mi sembra spazzatura. E loro continuano a dire, “no no no, non preoccupatevi, è il Libero Mercato, è il motivo per cui noi viviamo in case così grandi”. Ma in realtà è la Fed o qualcosa di simile, no?

Greenspan: Penso che dovresti rileggere il mio libro..

Stewart: Sbaglio o penalizziamo il lavoro non facendo la scelta di ..
Greenspan: No, quello che un sistema monetario sano fa è stabilizzare gli elementi che sono al suo interno e ridurre l’incertezza che la gente deve affrontare e quando la gente si trova davanti all’incertezza allora si ritira e reduce l’attività economica

Stewart: Quindi si tratta solo di percezione. Riguarda il far credere alla gente che il sistema funziona. Se il mercato azionario va su la gente si sente tranquilla e spende, se si abbassa la gente si sente meno tranquilla?


Greenspan: Bene.. uh… penso che tu debba capire che ci sono certi aspetti nella natura umana che si muovono esattamente nel modo in cui tu hai descritto. Il problema è che periodicamente diventiamo tutti un po’ troppo euforici mentre stiamo pensando che tutto vada bene e non ci saranno problemi, non capiterà mai nulla di negativo e poi ci capita…Oh NO!

Stewart: E quindi funziona poi al contrario

Greenspan: Esatto

Stewart: Grande paura.

Greenspan: Dicevo giusto l’altro giorno ai miei colleghi… Ho avuto a che fare con questi grandi modelli matematici che prevedono come andrà l’economia e poi ho guardato a ciò che è successo nelle scorse settimane ed ho detto: “Sapete, se potessi trovare un modo per determinare se la gente ha paura o meno, o sta diventando euforica… non mi servirebbe nessun altro aggeggio. Potrei predire l’economia meglio che in ogni altro modo che conosco. Il problema è che non riusciamo a trovare il modo di farlo. Sono stato per 50 anni nel campo delle previsioni economiche e non ne so di più oggi di quanto ne sapessi allora e questo vale per tutti.”


La guerra fa uscire dalla crisi?

Il pezzo che segue è tratto dal libro Meltdown, di Thomas Woods, ci spiega perché non è vero che la Seconda Guerra Mondiale, con il suo grande programma di spesa pubblica, ha fatto uscire gli Stati Uniti dalla Grande Depressione.

di Thomas Woods

Quando qualcuno sostiene che il New Deal, dopo tutto, non ha risollevato il paese dalla Grande Depressione, la risposta più sentita è che durante gli anni 30 la spesa del governo non è stata sufficiente e che se un numero maggiore di risorse fosse stato preso dal settore privato e speso in opere pubbliche, la prosperità sarebbe stata ripristinata.

Ancora oggi molti Keynesiani cercano di sostenere che la brusca recessione del 1937-1938, una specie di depressione dentro la depressione, sia stata causata dalla decisione del governo federale di diminuire il deficit e quindi spendere meno in opere pubbliche. Da questa storia manca il fatto che i salari monetari siano aumentati del 13,7 per cento nei primi nove mesi del 1937, grazie all’intensa opera dei sindacati dopo la decisione favorevole della Corte Suprema riguardo il National Labor Relations Act del 1935. Questa impennata nei salari non si è tradusse in un incremento di produttività e non era in linea con nessun aumento dei prezzi. Naturalmente il risultato fu che l’occupazione calò e l’attività economica ebbe un brusco rallentamento. L’incremento nel costo del lavoro accompagnato a vari programmi di assistenzialismo non fece che aggravare il problema. In breve non dobbiamo farci ingannare dall’affermazione per cui una insufficiente spesa governativa sia stata la causa dei mali di quegli anni [1]

Secondo Paul Krugman, “Ciò che salvò l’economia, ed il New Deal, fu l’enorme opera pubblica conosciuta come Seconda Guerra Mondiale, che finalmente fornì lo stimolo fiscale adeguato ai bisogni dell’economia”.[2]

Questa stupefacente e bizzarra mancanza di comprensione di ciò che avvenne deve essere smentita, perché troppe proposte attuali sono basate sulla medesima e stupida idea per cui sino a quando la spesa del governo ed il debito pubblico rimangono abbastanza grandi, il risultato è la prosperità.

C’è qualcosa di vero ella nozione per cui la Seconda Guerra Mondiale ha stimolato l’economia americana? Certamente è vero che la disoccupazione è calata sostanzialmente durante la guerra ma non ci vuole molto a capire che questo è ciò che accade quando il 29% della forza lavoro pre-bellica viene richiamato alle armi.

Lo storico dell’economia Robert Higgs, in un paio di articoli che sono apparsi nelle riviste specializzate durante gli anni 90, ha portato il più efficiente assalto contro questo vecchio mito della prosperità durante la guerra. Quando l’Oxford University Press ha pubblicato il suo libro “Depressione, guerra e guerra fredda” nel 2006, la tesi di Higgs aveva già cominciato a farsi strada anche nei testi universitari.

Higgs ci chiede di considerare le improvvise e severe limitazioni di risorse che afflissero l’economia americana durante quegli anni. Con il 29% dei lavoratori trasferiti nell’esercito lungo tutto l’arco della guerra, il loro posto fu preso da uomini anziani, donne ed adolescenti con poca esperienza lavorativa. Dobbiamo davvero credere che un’economia che soffre di queste difficoltà tuttavia è riuscita ad ottenere una crescita annuale del prodotto interno lordo del 13% in termini reali, un risultato mai più replicato, prima e dopo, nella storia americana? E dobbiamo anche credere che quando la forza lavoro originale fu ripristinata alla fine della guerra, il prodotto dell’economia americana crollò del 22 per cento nel biennio seguente?

Non è una buona credenziale per la teoria economica mainstream il fatto che così tanti dei suoi studenti abbiano creduto a questo assurdità per così tanto tempo. Un critico potrebbe obiettare che queste conclusioni vengono tratte direttamente da ciò che i dati statistici ci dicono. Bene, non potrebbe allora esserci forse qualcosa di marcio in queste statistiche, visto che ci conducono a delle conclusioni assurde?

Il problema è che le statistiche del reddito nazionale raccolte durante la guerra sono senza significato. Il prodotto interno lordo è un valore aggregato di dubbia utilità anche in tempi normali ma durante la guerra è stato più ingannevole del solito. Soltanto la libera interazione tra compratori e venditori , l’azione della domanda e dell’offerta, può dar luogo a prezzi che abbiano un qualche significato all’interno del mercato. Se il governo dovesse pretendere, unilateralmente e in maniera isolata dal mercato, che “da oggi in poi il prezzo delle uova è di 10$ l’una e ne ordiniamo un milione,” quale nuova conoscenza delle reali condizioni economiche porterebbe l’aver moltiplicato un prezzo arbitrario di 10$ per un milione di uova, arrivando alla cifra di 10 milioni di dollari, ed averlo aggiunto al reddito nazionale?

Ma questo è ciò che è accaduto durante la guerra. Con almeno due quinti del prodotto nazionale ora parte della macchina bellica, con larghe porzioni del resto dell’economia sotto vari tipi di controllo e con effetti di spillover su tutta l’economia, il sistema dei prezzi è diventato sempre più arbitrario. I prezzi non nascevano più dalla libera interazione di venditori e compratori. Venivano imposti dal governo e non riflettevano la scelta dei consumatori. Sommare tra loro un gruppo di numeri determinati in modo arbitrario ci dà come risultato… un grande numero determinato in modo arbitrario. Ma è su questi numeri, ovvero le stime del prodotto nazionale lordo durante la guerra, che è basata la favola della prosperità durante quegli anni. [3]

In tutto questo i consumatori hanno dovuto sopportare razionamenti, una qualità decrescente dei prodotti, l’impossibilità di acquistare prodotti come nuove case, automobili, elettrodomestici ed un incremento nelle ore di lavoro settimanali. Ma quanto è significativo un “boom” in cui il benessere dei consumatori è soggetto a queste costrizioni? Eppure è questa la “grande prosperità”.

Inoltre venne detto che a guerra finita, con i nostri ragazzi che tornavano a casa e la spesa militare che veniva tagliata, il paese avrebbe dovuto sprofondare di nuovo nella depressione. Ma accadde esattamente l’opposto, ovviamente: il 1946 fu un anno di fantastica prosperità, in cui il settore privato vide il picco di crescita più alto nella storia americana.

Questo è un grande mistero per una certa scuola di economisti ma è buon senso per tutti gli altri: quando si torna a produrre ciò che serve ai consumatori e la forza lavoro aumenta e migliora, l’economia non può che migliorare.

Eppure la contabilità nazionale mostra un grande declino nella prosperità degli Stati Uniti nel 1946 - un’altra assurdità - ma se ascoltiamo i consigli dei cattivi economisti e prendiamo come buone le statistiche durante la guerra, allora dobbiamo considerare che quegli stessi aggregati statistici ci dicono che l’economia ha avuto una brusca frenata nel 1946. La salute del settore privato, ovvero là dove viene generata la ricchezza, è stata però molto precaria durante la guerra ed eccellente dopo.

Queste sono davvero solo considerazioni di buon senso

Se spendere in armi rende davvero un paese ricco allora gli Stati Uniti ed il Giappone dovrebbero fare ciò che segue.

Ognuno dovrebbe costruire la più grande flotta navale della storia, una flotta gigante di navi enormi, potentissime e tecnologicamente avanzate. Le due flotte dovrebbero poi incontrarsi in mezzo al Pacifico. Naturalmente, siccome si vuole evitare la perdita di vite umane, tutto il personale dovrebbe essere evacuato dalle navi. A questo punto gli Stati Uniti ed il Giappone dovrebbero affondarsi reciprocamente le flotte.

In seguito dovrebbero festeggiare quanto sono diventati più ricchi nel destinare la forza lavoro, acciaio ed innumerevoli altre risorse alla produzione di cose che sono finite nel fondo dell’oceano. [4]

[1]Salerno, “Money and Gold in the 1920s and 1930s: An Austrian View”; anche Richard K. Vedder e Lowell E. Gallaway, “Out of work: Unemployment and Government in Twentieh-Century America (New York: Holmes & Meier, 1993), ch. 7

[2] Paul Krugman, “Franklin Delano Obama?” New York Times, 10 novembre, 2008

[3] Robert Higgs, “Depression, War and Cold War

[4] Jon Basil Utley ha inventato questo esperimento mentale


Criceti austriaci

Se si escludono pochissime eccezioni, l’opinione generale è che la crisi economica sia stata provocata dagli eccessi del mercato e dalle deregulation.

Anche il Sole 24 ore “spiega” la crisi in questo modo e se anche nomina di sfuggita la Federal Reserve e la sua politica monetaria, tuttavia evita di spiegare il nesso causale che intercorre tra le iniezioni di liquidità nel sistema bancario ed il crollo dell’economia reale dopo lo scoppio della bolla immobiliare. Se infatti uno si chiede perché lo scoppio di una bolla finanziaria negli Stati Uniti abbia trascinato nella crisi le imprese di mezzo mondo, non troverà risposta nelle animazioni del Sole 24 ore.

La spiegazione, lo sappiamo, arriva dalla teoria austriaca del ciclo economico, ma per chi è a digiuno di teoria economica può essere molto difficile comprenderla. Visto che tutti si dilettano a spiegare i modelli economici con modelli esemplificativi, voglio proporvene uno anche io: la “teoria austriaca del criceto sulla ruota”.

Immaginiamo di osservare un criceto che sta correndo all’interno di una ruota girevole. Difficilmente il nostro roditore conosce sin da subito il suo “ritmo aerobico” per cui vi arriva per tentativi, aumentando la sua velocità e poi rallentando per riposare. Man mano che corre, poi, allena il suo fisico e questo gli consente di aumentare gradualmente le sue prestazioni

Ad un certo però punto interveniamo noi e decidiamo, quando il criceto inizia a rallentare, di stimolare il suo metabolismo iniettandogli dei farmaci (ad esempio delle anfetamine) che aumentino le sue prestazioni.

Ciò che osserviamo è che il criceto riprende a correre più velocemente di prima, almeno sino a quando, esausto, non rallenta nuovamente e si ferma per riposare. Durante lo sprint il criceto ha mantenuto un ritmo insostenibile per il suo metabolismo e così facendo ha consumato ulteriormente le sue energie ed ha riempito i muscoli di acido lattico, senza contare che i farmaci non gli hanno certamente fatto bene!

Il fatto che ora il criceto si sia fermato a riposare è forse colpa del suo metabolismo oppure è una conseguenza del precedente stimolo?

Certamente una nuova iniezione di farmaco potrebbe far ripartire il criceto ma il rischio è che proseguendo con le iniezioni e dovendo ogni volta aumentare la dose per ottenere il risultato voluto, si rovini definitivamente la salute del criceto, provocandone la morte.

C’è chi sostiene che una “regolamentazione” possa risolvere i problemi del nostro roditore ma non è certo regolamentando le iniezioni di stimolanti che si ottiene un criceto sano che corre felice sulla sua ruota ma eliminandole e lasciando che il criceto rallenti il ritmo e si riposi quando è stanco.


Peter Schiff: Questa crisi non avrebbe dovuto sorprendere nessuno

Questo è il video del discorso di Peter Schiff all'Austrian Scholars Conference, tenuto il 13 Marzo scorso. E' un po' lungo ed in inglese (qui trovate il transcript) ma ci conduce per mano dentro le assurdità della bubble economy.


Il sogno di Padoa Schioppa

In una lunga intervista al Sole 24 ore, l’ex ministro Padoa Schioppa, quello delle “tasse bellissime”, parla della crisi economica e propone, come “lezione per il futuro,” un suo sogno: l’adozione di una moneta unica globale.

Non lo chiedono solo i cinesi. Ne parlano da tempo una delle menti economiche più acute della nostra epoca come Robert Mundell e un autorevolissimo ex banchiere centrale americano come Paul Volcker. [..]In ogni caso, da ex banchiere centrale penso che quando si parla di standard globali, prima ancora che a quelli legali si debba guardare a quello monetario, che è un fatto economico funzionale, seppure vincolato a un substrato legale. Insomma, credo proprio che questa crisi ponga il problema di un nuovo standard monetario internazionale. La sua assenza e l'assenza della disciplina che esso imporrebbe sono una delle cause profonde della crisi attuale.

Innanzitutto Padoa Schioppa ha citato Mundell e Paul Volcker. Vediamo che cosa dicevano:

Il rimedio migliore a tutti i guai dell’economia mondiale sarebbe (e adesso ci inoltriamo nel regno del lunghissimo periodo) la creazione di una moneta unica globale. Potrebbe essere una nuova moneta, e qualora non fosse possibile, una valuta già dominante potrebbe prestarsi al gioco. Tutte le altre valute mondiali potrebbero agganciarvisi. Magari proprio il dollaro potrebbe avere questa funzione”. A sostegno di ciò che afferma profeticamente, Robert Mundell cita Paul Volcker che sosteneva che “un’economia globale ha bisogno di una moneta globale

Possiamo dire subito una cosa. Quando parlano di “nuova valuta mondiale” questi personaggi hanno in mente una moneta “di carta”, una fiat money inflazionabile a piacere dal pianificatore di turno. Se anche Padoa Schioppa parla di “assenza di disciplina” del sistema attuale, quello che intende in realtà è assenza di coordinamento tra le banche centrali mondiali nel gestire il processo inflazionarlo.

Se invece avesse voluto veramente parlare di “disciplina”, avrebbe sicuramente sostenuto l’adozione di una moneta merce, come l’oro, quale standard globale. Parlando del gold standard, Padoa Schioppa non manca di notare che

“Se ci fosse stato ancora quell'aggancio, negli ultimi anni i paesi che accumulavano ingenti disavanzi esterni - come gli Stati Uniti - avrebbero dovuto convertirne una parte proprio in oro; la conseguente scarsità di riserve auree li avrebbe obbligati a correggere la rotta.”

Ma quello di Bretton Woods era un gold standard finto e nulla impedì a Nixon di togliere anche l’ultimo velo e mostrare al mondo che non vi era nessun “aggancio” all’oro e che si poteva continuare tranquillamente così, inflazionando a piacere.

Ma qual è il vero obiettivo?

Nella sua lezione del 1974, Hayek aveva denunciato l’arroganza dei pianificatori, che pretendono di possedere una conoscenza che non hanno e non potranno avere mai. Nel caso della moneta, la presunzione è che l’impossibilità di gestire il sistema monetario a livello nazionale possa essere superata se questa gestione diventa globale.

Se quindi la politica inflazionaria non è riuscita a ottenere i risultati promessi, ovvero prosperità e una piena occupazione, secondo i pianificatori ciò è dovuto al fatto che non essi hanno abbastanza potere.

In realtà, come ricorda Rothbard

l’obiettivo massimo della maggior parte dei leader politici americani e mondiali è la vecchia visione keynesiana di un sistema basato su un’unica moneta cartacea a corso forzoso, una nuova unità monetaria emessa da una Banca di Riserva Mondiale (BRM). Che la nuova moneta sia chiamata “bancor” (secondo la proposta di Keynes), “unita” (proposto da Harry DexterWhite, funzionario del Tesoro americano durante la seconda guerra mondiale) o “phoenix” (suggerito dall’Economist) non è importante. L’aspetto essenziale è che tale moneta cartacea internazionale, sebbene immune dalle crisi delle bilance dei pagamenti (perché la BRM potrebbe emettere “bancor” a piacimento e determinarne la quantità per qualsiasi paese), offrirebbe un canale per un’inflazione mondiale illimitata, non disciplinata da eventuali crisi delle bilance dei pagamenti o da riduzioni nei tassi di cambio. La BRM sarebbe quindi il potentissimo soggetto che stabilisce la quantità di moneta in tutto il mondo e la sua suddivisione fra paesi. La BRM potrebbe assoggettare il mondo ad una illusoria inflazione controllata. sfortunatamente, niente si opporrebbe al catastrofico olocausto economico dell’iperinflazione mondiale, niente eccetto la dubbia capacità della BRM di regolare l’economia mondiale.

Insomma il sogno di Padoa Schioppa sarebbe un incubo per tutti noi.


Aiuta di più l'economia lo spendaccione o il parsimonioso?

Nel mondo alla rovescia della macroeconomia keynesiana la virtù del singolo diventa vizio per la nazione e viceversa. Si loda chi spende tutti i suoi soldi perché la sua spesa "fa girare l'economia", si condanna chi risparmia perché "un dollaro risparmiato non circola nell'economia e risparmi più alti significano meno vendite e meno profitti per le imprese in difficoltà".

Questi sono gli effetti che si vedono. Ma quali sono gli effetti "che non si vedono"?

Ce li racconta Fredéric Bastiat con un pamphlet che ha ormai più di 150 anni (si ringrazia www.societalibera.org per la traduzione)

Certi miti sono proprio duri a morire.


Ciò che si vede e ciò che non si vede

Il Risparmio ed il lusso


di Fredéric Bastiat

Non è soltanto in materia di spese pubbliche che ciò che si vede nasconde ciò che non si vede. Lasciando nell'ombra metà dell'economia politica, questo fenomeno induce ad una falsa morale. Porta le nazioni da considerare antagonistici i loro interessi morali ed i loro interessi materiali. Nulla di più di scoraggiante e più di triste! Vedete: non ci sono padri di famiglia che non si facciano un dovere di insegnare ai loro bambini l'ordine, la sistemazione, lo spirito di conservazione, l'economia, la moderazione nelle spese. Non ci sono religioni che non tuonino contro il fasto ed il lusso. Molto bene; ma, d'altra parte, quanto sono popolari queste sentenze:


Risparmiare, è essiccare le vene del popolo.

Il lusso dei grandi fa l'agiatezza dei piccoli.

I prodighi si rovinano, ma arricchiscono lo Stato.

E' sul superfluo del ricco che germina il pane del povero.


Ecco, certamente, tra morale e sociale, una flagrante contraddizione. Quanti spiriti eminenti, dopo avere constatato il conflitto, riposano in pace! È ciò che non ho mai potuto capire: poiché mi sembra che non si possa provare nulla di più penoso che scorgere due tendenze opposte nell'umanità. Come!? L'umanità arriva al disastro con l'uno come con l'altro estremo: economa, cade nella miseria; prodiga, si danneggia nella condanna morale!


Fortunatamente i proverbi popolari mostrano sotto una falsa luce il risparmio ed il lusso, non tenendo conto che delle loro conseguenze immediate che si vedono, e non degli effetti ulteriori che non si vedono. Proviamo a correggere questa visione incompleta.


Mondor ed il fratello Ariste, che hanno diviso l'eredità paterna, hanno ciascuno cinquantamila franchi di entrate. Mondor pratica la filantropia alla moda. È ciò che si dice un ammazzasoldi. Rinnova i suoi mobili molte volte all'anno, cambia il suo equipaggiamento tutti i mesi; si citano i metodi abili ai quali fa ricorso per finirlo prima: in breve, fa appassire i viveurs di Balzac e di Alexandre Dumas. Così, bisogna sentire il concerto di elogi che lo circonda sempre! "Parlateci di Mondor! viva Mondor! È il benefattore dell'operaio; è la provvidenza del popolo. In verità, si sprofonda nelle orgie, inzacchera i passanti; la sua dignità e la dignità umana ne soffrono un poco... Ma, bah, se non si rende utile per sé, si rende utile con la sua fortuna. Fa circolare il denaro; la sua corte non si svuota mai dei fornitori, che si ritirano sempre soddisfatti. Non dice che se l'oro è rotondo, è perché rotola?"


Ariste ha adottato un piano di vita ben diverso. Se non è un egoista, è almeno un individualista, poiché riflette sulle sue spese, ricerca solo piaceri moderati e ragionevoli, pensa al futuro dei suoi bambini, e, per dire la parola, economizza. E bisogna sentire ciò che dice di lui il popolo! "A che è buono questo cattivo ricco, questo spilorcio? Certamente, c'è qualcosa di forte e di toccante nella semplicità della sua vita; è del resto umano, benevolo, generoso, ma egli calcola. Non sciupa tutti i suoi redditi. Il suo palazzo non è incessantemente splendido di luci e turbinante di ospiti. Quale riconoscimento si acquisisce fra i tappezzieri, i carrozzai, i commercianti di cavalli ed i pasticceri?"

Questi giudizi, disastrosi per la morale, sono fondati su una cosa che colpisce gli occhi: la spesa del prodigo; ed un'altra che si nasconde: la spesa uguale ed anche superiore dell'economo. Ma le cose sono state così ammirevolmente sistemate dall'inventore divino dell'ordine sociale, che in questo, come in tutto, l'economia politica e la morale, lungi da urtarsi, vanno d'accordo, e che la saggezza di Ariste è non soltanto più degna, ma anche più vantaggiosa della pazzia di Mondor. E quando dico più vantaggioso, non intendo dire soltanto vantaggioso ad Ariste, o alla società in generale, ma più vantaggiosa per gli operai attuali, all'industria del momento.


Per provarlo, basta mettere sotto l'occhio dello spirito le conseguenze nascoste delle azioni umane che l'occhio del corpo non vede. Si, la prodigalità di Mondor ha effetti visibili a tutti gli sguardi: ciascuno può vedere le sue berline, i suoi landau, i sui phaétons, le graziose vernici dei suoi soffitti, i suoi tappeti ricchi, lo splendore che scaturisce dal suo hotel. Ciascuno sa che i suoi purosangue corrono sul turf. I pranzi che dà all'Hotel de Paris fermano la folla sul boulevard, e ci si dice: ecco un uomo coraggioso, che, lontano risparmiare qualcosa dei suoi redditi, intacca probabilmente il suo capitale. È queello che si vede.


Non è così facile vedere, dal punto di vista dell'interesse dei lavoratori, ciò che diventano i redditi di Ariste. Seguiamo la traccia, tuttavia, e ci assicureremo che tutti, fino all'ultimo obolo, fanno lavoraredegli operai, quasi certamente come i redditi di Mondor. C'è soltanto questa differenza: la folle spesa di Mondor è condannata a diminuire continuamente ed incontrare una fine necessaria; la spesa prudente di Ariste andrà crescendo di anno in anno. Ed è così, certamente, che l'interesse pubblico si trova in accordo con la morale.


Ariste spende, per lui e la sua casa, ventimila franchi all'anno. Se ciò non bastasse alla sua felicità, non meriterebbe il nome di saggio. Egli è toccato dei mali che pesano sulle classi povere; si crede, in coscienza, obbligato a portare qualche sollievo e consacra diecimila franchi ad atti di beneficenza. Fra i commercianti, i fabbricanti, gli agricoltori, ha amici temporaneamente in difficoltà. Si informa della loro situazione, per loro venire in aiuto con prudenza ed efficacia, e destina a quest'opera ancora diecimila franchi. Infine, non dimentica che ha figlie da dotare, dei figli ai quali deve garantire un futuro, e, di conseguenza, si impone di risparmiare e di mettere da parte tutti gli anni diecimila franchi.


Ecco dunque l'impiego dei suoi redditi.


1° Spese personali 20.000 F


2° Beneficenza 10.000 F


3° Servizi d'amicizia 10.000 F


4° Risparmio 10.000 F



Riprendiamo ciascuno di questi capitoli, e vedremo che nulla sfugge al lavoro nazionale.
1° Spesa personale. Questa, quanto agli operai e fornitori, ha effetti assolutamente identici ad una spesa uguale fatta da Mondor. Ciò è ovvio per sé; non ne parliamo più.
2° Beneficenza. I diecimila franchi destinati a questo alimenteranno ugualmente l'industria; giungono al panettiere, al macellaio, al commerciante di vestiti e di mobili. Soltanto il pane, la carne, gli abiti, non servono direttamente a Ariste, ma a quelli che gli si sono sostituiti. Ma, questa semplice sostituzione di un consumatore ad un altro non influisce affatto sull'industria generale. Che Ariste spenda cento soldi o che preghi un infelice di spenderli al suo posto, è uguale.
3° Servizi d'amicizia. L'amico a cui Ariste presta o dona diecimila franchi non li riceve per nasconderli; ciò ripugna all'ipotesi. Se ne serve a pagare merci o debiti. Nel primo caso, l'industria è incoraggiata. Si oserà dire che debba più guadagnare all'acquisto da parte di Mondor di un puro-sangue da diecimila franchi che all'acquisto da parte di Ariste o il suo amico di diecimila franchi di tessuti? Mentre se quella somma serve a pagare un debito, tutto ciò che ne risulta, è che appare un terzo personaggio, il creditore, che avrà i diecimila franchi, ma che certamente li userà per il suo commercio, la sua fabbrica, o il suo impiego. È un intermediario di più tra Ariste e gli operai. I nomi propri cambiano, la spesa resta e l'incoraggiamento all'industria anche.
4° Risparmio. Restano i diecimila franchi salvati; ed è qui che dal punto di vista dell'incoraggiamento alle arti, all'industria, al lavoro, agli operai, Mondor sembra molto superiore a Ariste, sebbene, dal punto di vista morale, Ariste si mostri un poco superiore a Mondor.

Non è mai senza un disagio fisico, che va fino alla sofferenza, che io vedo l'apparire di tali contraddizioni tra le grandi leggi della natura. Se l'umanità fosse ridotta a scegliere tra due parti, delle quali una ferisce i suoi interessi e l'altra la sua coscienza, ci rimarrebbe soltanto da disperare del suo futuro. Fortunatamente ne non è così. E, per vedere Ariste riprendere la sua superiorità economica, come la sua superiorità morale, basta comprendere questo consolante assioma, che ne non è meno vero, benché abbia un aspetto paradossale: risparmiare, è spendere.

Quale è lo scopo di Ariste, economizzando diecimila franchi? È forse di nascondere duemila pezzi da cento soldi in un nascondiglio del suo giardino? No certamente, egli intende accrescere il suo capitale ed il suo reddito. Di conseguenza, questo denaro che non usa a comperare terre, una casa, rendite sullo Stato, azioni industriali, lo mette presso o un commerciante o un banchiere. Seguite i denari in tutte quest'ipotesi, e vi convincerete che, con l'intermediazione di venditori o di mutuatari, alimenteranno lavoro ugualmente come se Ariste, seguendo l'esempio del fratello, li avesse scambiati con mobili, gioielli e cavalli.


Poiché, quando Ariste compera per 10.000 F di terre o di entrate, è determinato dalla considerazione che non ha necessità di spendere quella somma, poiché è ciò di cui gli avete fatto un'obiezione. Ma, allo stesso modo, quello che gli vende la terra o le rendite è determinato dalla considerazione che ha necessità di spendere i diecimila franchi in un modo qualunque. Cosicché la spesa si realizza, in tutti i casi, o da parte di Ariste o da parte di quelli che si sostituiscono a lui.


Dal punto di vista della classe operaia, dell'incoraggiamento al lavoro, c'è dunque, tra la condotta di Ariste e quella di Mondor, soltanto una differenza; essendo la spesa di Mondor direttamente compiuta da lui, ed intorno a lui, la si vede; quella di Ariste, che si realizza in parte per mezzo di intermediari ed alla lontana, non la si vede. Ma, di fatto, e per chi sappia collegare gli effetti alle cause, quella che non si vede è certa così come quella che si vede. Ciò che lo prova, è che nei due casi i denari circolano, e che ne non rimangono tanto nella cassaforte del saggio che in quella del dissipatore. È dunque falso dire che il risparmio faccia un torto attuale all'industria. Sotto questo punto di vista, è beneficente quanto il lusso. Ma di quanto non gli è superiore, se il pensiero, anziché fermarsi all'ora che fugge, prende in considerazione il lungo periodo!


Dieci anni sono passati. Cosa sono divenuti Mondor e la sua fortuna, e la sua grande popolarità? Tutto ciò è sparito, Mondor è rovinato; lungi dal gettare sessantamila franchi, tutti gli anni, nel corpo sociale, gli è forse passato a carico. In ogni caso, non fa più la gioia dei suoi fornitori, non conta più come promotore delle arti e dell'industria, non è buono a nulla per gli operai, come pure per la sua discendenza, che lascia nell'emergenza.


Al termine degli stessi dieci anni, non soltanto Ariste continua a mettere in circolazione tutti i suoi redditi, ma vi mette redditi crescenti di anno in anno. Amplia il capitale nazionale, cioè il fondo che alimenta il salario, e poiché è dall'importanza di questo fondo che dipende la domanda di lavoro, contribuisce ad aumentare gradualmente la retribuzione della classe operaia. Quando muore, lascia bambini che ha messo in grado di sostituirlo nella sua opera di progresso e di civilizzazione.


Sotto il punto di vista morale, la superiorità del risparmio sul lusso è innegabile. È consolante pensare che sia lo stesso dal punto di vista economico, per chiunque non si fermi agli effetti immediati dei fenomeni, ma sappia spingere la sua indagine fino ai loro effetti definitivi