Keynes e la crisi - prima parte: il modello keynesiano


È normale chiedere cosa si possa fare per uscire al più presto da una crisi economica: è una domanda legittima. Per rispondere correttamente, però dobbiamo prima capire che cosa non si deve assolutamente fare. Sembra scontato che il governo debba fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di accelerare la ripresa ma non è affatto così: gli interventi possono infatti essere controproducenti e far precipitare l’economia in uno stato di depressione prolungata.

Nell’autunno del 2008 è sembrato quasi normale che i governi intervenissero per sia salvare il sistema bancario che le grandi aziende in difficoltà (si pensi alle aziende automobilistiche americane) e stimolare la domanda aggregata. In tanti  hanno iniziato ad invocare il nome di un economista inglese che negli anni ’30 aveva proposto una ricetta per uscire dalla Grande Depressione, ricetta che prevedeva il massiccio intervento dello Stato nell’economia, a suon di opere pubbliche e spesa in deficit. Ancora oggi, dopo tre anni e mezzo di fallimentari politiche di stimolo economico, c’è chi invoca a gran voce i suoi insegnamenti come unica e vera soluzione alla crisi. Se fino ad oggi non hanno funzionato è perchè sono stati timidi, limitati, non sufficienti.

E allora diamo uno sguardo a questa ricetta e riflettiamo se dobbiamo davvero dar retta a Keynes,  smettere di preoccuparci del debito pubblico e costruire la ripresa economica a suon di spesa a deficit, oppure no.

Keynes e la “teoria generale”

Quando nel 1936 uscì la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, la scienza economica andò incontro ad una vera e propria rivoluzione. Fu però una rivoluzione di tipo politico. L’economista inglese, infatti, pur presentando la sua teoria come generale, in realtà non aveva nessuna intenzione di rivoluzionare la scienza economica. Voleva invece giustificare e promuovere quei provvedimenti di intervento pubblico che riteneva indispensabili per far uscire le nazioni occidentali dalla Grande Depressione. Avendo fornito una giustificazione teorica per le politiche che i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna avevano già intrapreso da qualche anno, non ci deve stupire il fatto che il libro ottenne presto un enorme successo. Diventare keynesiano significava essere ben visto dalla politica ed ottenere cattedre universitarie. È quindi perfettamente normale che quasi tutti i giovani economisti di allora divennero keynesiani: era un modo rapido e sicuro per fare carriera! 

Ma in cosa consiste questa teoria e in che modo viene giustificato e anzi ritenuto necessario l’intervento statale?

Il modello

La teoria keynesiana semplifica il mondo reale ed astrae la realtà, condensando le complesse e molteplici attività individuali in pochi e grandi aggregati che ritroviamo ogni qual volta si parli economia in televisione o sui giornali. 

Il più importante di questi è il cosiddetto reddito nazionale o PIL che assomma tutti gli scambi monetari di merci e servizi avvenuti durante l’anno. E’ importante sottolineare come nel modello economico keynesiano si possa percepire un reddito soltanto se qualcun altro ha speso una somma uguale. Quando andiamo dal macellaio e spendiamo 10 euro per comprare della carne aumentiamo il reddito del macellaio di 10 euro, mentre il nostro reddito, se siamo ad esempio lavoratori dipendenti, è il risultato della spesa dell’impresa per cui lavoriamo. In ogni caso, i consumi e soltanto i consumi, possono generare un reddito in denaro.

Se questo modello è vero allora possiamo affermare che il reddito nazionale è anche uguale alla spesa complessiva di famiglie e imprese. Le spese possono essere di due tipi: finalizzate all’acquisto di merci e servizi finali (consumi) oppure all’acquisto dei mezzi di produzione di queste merci (investimenti). La teoria keynesiana ci dice che  i consumi sono una parte abbastanza stabile dell’economia e dipendono dal reddito (le famiglie consumano una certa percentuale del reddito percepito), mentre il livello degli investimenti è una parte instabile dell’economia e dipende da quelli che Keynes chiamava animal spirits (spiriti animali) ovvero gli umori ed i sentori di imprenditori ed investitori in un particolare momento. In realtà c’è un terzo tipo di spesa, ovvero la spesa pubblica, che anch’essa è indipendente dal reddito nazionale(1).

Veniamo ora al secondo grande aggregato della teoria macroeconomica che è il livello di occupazione (e per differenza il tasso di disoccupazione). I keynesiani ci dicono che ad un certo reddito nazionale corrisponde un certo livello di occupazione: se aumenta il reddito nazionale (e quindi la domanda aggregata(2)) anche il tasso di occupazione aumenta (la disoccupazione diminuisce) e viceversa. Esiste però un certo valore per il reddito nazionale, chiamato PIL potenziale, oltre il quale ogni incremento ulteriore di reddito si traduce soltanto nell’aumento dei prezzi e dei salari (l’occupazione non aumenta più). 

Che cosa intendeva dire Keynes?

Immaginiamo di avere un’azienda che produce automobili e che possiede uno stabilimento in cui può far lavorare 1000 operai a pieno regime. Al momento la spesa per le automobili è tale per cui stanno lavorando soltanto 700 operai. Che cosa succede se facciamo aumentare la spesa per automobili? Piano piano la nostra azienda assumerà altri operai in modo da sfruttare l’aumento della domanda ma quando arriverà a 1000 si dovrà fermare perché avrà raggiunto la piena capacità produttiva: ogni ulteriore incremento della domanda di automobili si tradurrà soltanto in un aumento dei salari degli operai e del prezzo delle vetture(3).

Passiamo ora al terzo aggregato che è il livello medio dei salari. Gli economisti classici avevano teorizzato che durante una crisi, man mano che i prezzi dei beni calavano, bisognava lasciare che anche i salari monetari diminuissero in modo da ristabilire il livello di piena occupazione. Badate bene: se i prezzi stanno scendendo contemporaneamente al salario allora il vostro potere d’acquisto, quello che viene chiamato salario reale, resterà immutato(4). 

Keynes, abituato alla situazione inglese in cui i sindacati avevano un grande potere contrattuale, aveva seri dubbi riguardo al fatto che a livello politico sarebbe stato permesso agli industriali di abbassare i salari monetari. Aveva però pronta la soluzione: se la montagna non va da Maometto sarà quest’ultimo ad andare alla montagna e se politicamente non si vuole far sì che i salari monetari scendano allora interverrà l’autorità monetaria, stampando denaro per impedire anche agli altri prezzi di scendere.
Vediamo ora a come si determina, nella teoria keynesiana, il reddito nazionale. Abbiamo detto che le famiglie consumano una certa percentuale del loro reddito che nel breve periodo possiamo considerare fissa (ad esempio il 90% del reddito) mentre il resto è costituito dagli investimenti privati e dalla spesa pubblica, spese che abbiamo chiamato indipendenti. 

Quindi, reddito = spese indipendenti (investimenti privati + spesa del governo) + spese di consumo. Usando la nostra funzione del consumo, reddito = spese indipendenti + 90 per cento del reddito. Ora, facendo due calcoli, il reddito risulta uguale a dieci volte le spese indipendenti. Per ogni aumento in questa voce, ci sarà un aumento di dieci volte del reddito. Allo stesso modo, una diminuzione nelle spese indipendenti condurrà ad un calo di dieci volte del reddito. Questo effetto moltiplicatore sul reddito verrà realizzato da qualunque tipo di spesa, sia pubblica che privata. Quindi, nel modello keynesiano, queste spese hanno lo stesso effetto economico(5).


Prima avevamo detto che ad un certo reddito aggregato corrispondeva un determinato livello di occupazione; secondo Keynes, ed è un punto di rottura rispetto alla teoria classica, non c’è nessun motivo valido per affermare che il livello di reddito costituito nel libero mercato coinciderà con quello necessario a garantire la piena occupazione. Potrebbe anzi essere inferiore e determinare un equilibrio di sottoccupazione (6) oppure superiore e portare all’inflazione dei prezzi.

Lo Stato deve guidare l'economia

Il ruolo dello Stato deve essere quindi quello di un pilota che guida l’economia lungo una stretta strada ai cui lati ci sono il precipizio della disoccupazione di massa e l’inflazione dei prezzi. Se gli investimenti privati crollano e l’economia sterza verso la disoccupazione lo Stato deve impegnarsi a spendere in deficit per “colmare” il buco di spesa che si è creato mentre contemporaneamente l’autorità monetaria deve aprire i rubinetti del credito in modo da evitare la deflazione dei prezzi.


Se invece si raggiunge il livello di piena occupazione lo Stato deve intervenire e condurre un bilancio in surplus in modo da ridurre il debito pubblico ed allo stesso tempo evitare che ulteriori aumenti del reddito nazionale si traducano in inflazione dei prezzi. 

Stupendo, fantastico ma… completamente sbagliato, nel prossimo pezzo, vedremo il perchè.




Note
(1) In realtà se consideriamo una economia aperta al commercio dovremmo tener conto di esportazioni ed importazioni. Infatti anche la bilancia commerciale dei pagamenti entra nell’equazione. Per semplicità consideriamo una economia chiusa.
(2) La domanda aggregata è la somma di tutte le spese e quindi, nel modello keynesiano, è anche uguale ai redditi.
(3) Una conseguenza di questa affermazione è che se siamo già al livello di pieno potenziale è inutile cercare di aumentare la domanda. Keynes infatti suggeriva ai governi di utilizzare i periodi di vacche grasse per ridurre la spesa pubblica, condurre bilanci in attivo e ripianare i debiti contratti durante le crisi.
(4) Ovviamente questo avviene se prezzi e salari calano con lo stesso ritmo. Se i prezzi calano del 5% ed i salari del 3% il potere d’acquisto dei salari potrebbe addirittura aumentare.
(5) Spendere milioni di euro per un aereo militare è identico a costruire appartamenti per famiglie a basso reddito oppure ad aprire una nuova impresa commerciale.
(6) Avremo quindi aziende con impianti non utilizzati al 100%.

2 commenti:

weierstrass ha detto...

"il reddito risulta uguale a dieci volte le spese indipendenti. Per ogni aumento in questa voce, ci sarà un aumento di dieci volte del reddito"

Secondo me, però, si può fare di meglio. Dal momento che la spesa in panini al prosciutto ammonta all'1% del PIL (*), si può dire che il reddito nazionale risulti uguale a 100 volte la spesa in panini al prosciutto. Quindi, se si aumentasse questa voce, il reddito nazionale incrementerebbe di 100 volte tale aumento! Ecco cosa causa i cicli economici: gli istinti paninari :-) Orsù, il Governo faccia incetta di rosette per risollevare le sorti dell'Italia.

(*) cifra tirata a caso

Suppongo che la prima obiezione a questo genere di argomenti sia che, se un maggior numero di persone lavora per produrre panini al prosciutto, un minor numero di persone potrà produrre il resto dei beni di consumo (e dei mezzi di produzione di quest'ultimi). Dunque la spesa statale non fa altro che trasferire risorse da un settore all'altro. Ciò potrebbe aumentare la ricchezza prodotta solo se il Governo sapesse allocare le risorse meglio di quanto farebbe il settore privato. Quindi, di fatto, questo genere di azioni riduce la ricchezza prodotta.

Ashoka ha detto...

Il giochetto dei keynesiani è dire che la propensione al consumo rimane costante per cui aumentando il reddito di DY il consumo aumenterà di c*DY, mentre nel caso dei panini la loro percentuale del PIL non sarebbe costante.

Lo so che non si può dire nemmeno dei consumi.. ma un keynesiano ti direbbe così.

Altrimenti c'è sempre l'esempio Rothbardiano: Y = reddito altri + mio reddito
reddito altri = 999999/1000000 * Y
da cui risulta che:

Y = 1000000 * mio reddito ed ogni euro dato a me genera 1 milione di euro di PIL :-)